Pedullà, autobiografia di un critico outsider
RITRATTI L'autore si racconta nel suo «Il pallone di stoffa», per Rizzoli. Il libro colleziona le «memorie di un nonagenario», tra i maggiori testimoni dello sperimentalismo
RITRATTI L'autore si racconta nel suo «Il pallone di stoffa», per Rizzoli. Il libro colleziona le «memorie di un nonagenario», tra i maggiori testimoni dello sperimentalismo
Tratta da una leggenda Maya, ricorre più volte nella riflessione saggistica di un decano delle nostre lettere, Walter Pedullà, la inconciliabilità tra il cerchio e il quadrato (la sfera e il dado) e dunque tra gli scrittori che tornano continuamente sui propri passi (fissi a un nucleo percettivo così come ad un ordito testuale inderogabile) e gli scrittori viceversa che amano svoltare all’improvviso sospettando ogni linearità del decorso.
L’immagine torna anche nella bella e ricca autobiografia del critico calabrese, Il pallone di stoffa. Memorie di un nonagenario (Rizzoli, «La Scala», pp. 541, euro 22), che festeggia il suo invidiabile compleanno rimanendo fedele a uno stile che due volte e da sempre gli appartiene, sia perché Pedullà ha sempre avvalorato e sostenuto gli autori non-riconciliati, i ribelli più insolenti e inventivi, insomma gli outsider che il senso comune tende a sospingere al margine tra i casi speciosi o inessenziali, sia perché Pedullà a propria volta è un critico outsider pure se ha raggiunto i vertici istituzionali, dalla cattedra alla Sapienza cui è approdato da ex assistente nientemeno di Giacomo Debenedetti, alla presidenza del Teatro di Roma e, nei primi anni novanta, della stessa Rai, dove era approdato da consigliere di amministrazione iscritto al Psi senza essere affatto un craxiano ma anzi un esponente della sinistra del partito, vicino a Riccardo Lombardi.
ULTIMO, ma non certo l’ultimo, il ruolo pluridecennale di critico militante all’Avanti! (in una pagina prestigiosa che eo tempore annoverava, fra gli altri, Fortini, Cases, Timpanaro, Zanzotto per restare ai letterati) e in una serie di periodici, redatti e infine diretti, le cui insegne molto gli somigliano, per esempio, fino al 2014, Il Caffè illustrato, erede della rivista gestita contromano da Gianbattista Vicari, e l’Illuminista i cui numeri monografici sui massimi autori del secolo escono tuttora ed è imminente, non per caso, l’uscita del fascicolo dedicato alla critica militante.
Qui va subito chiarito che «militante» per Pedullà non è l’obbedienza a un qualche engagement preordinato o meno che mai è il refugium peccatorum di una tendenza ideologica (e infatti il critico sospetta gli «–ismi» come tali, etichette che inquadrano e perciò spengono l’ardore e la fisionomia della singolarità artistica) ma al contrario «militante» significa per lui l’appoggio, ovvero il diniego, prodigato qui – e ora ad un’opera che sappia sobillare la quiete del senso comune, che sia in grado di turbare e persino di inquietare l’orizzonte d’attesa del lettore. Perché se Debenedetti, che gli fu maestro insieme con Galvano della Volpe all’università di Messina, ha potuto mostrargli l’arte del racconto critico, oltre che proporgli lo spettacolo di un genio rabdomantico, il critico che più gli somiglia nella procedura e nel metodo (parola per lui impropria perché rigida e potenzialmente dogmatica) è il campione dei formalisti russi, il sovietico Viktor Sklovskij nella cui Teoria della prosa si dà conto della «mossa del cavallo» vale a dire la tecnica dello spiazzamento o straniamento che ogni opera d’arte agisce sul lettore/spettatore sabotandone gli stereotipi e le connesse aspettative.
È PER QUESTO che Pedullà non può essere rubricato, come ancora qualche volta capita di leggere, fra i battistrada della neoavanguardia (di cui certo apprezza alcuni singoli – basterebbe citare a lui vicinissimi, fraterni, i nomi di Luigi Malerba ed Elio Pagliarani – senza però sottoscriverne in toto la poetica) ma semmai fra i maggiori testimoni dell’età dello sperimentalismo, la vague che fra gli anni cinquanta e i settanta del secolo scorso, rimette sistematicamente in questione l’istituto della letteratura.
Questo sanno gli allievi e i lettori di Pedullà e questo risulta da una vasta bibliografia (non meno di una trentina di titoli, tacendo le imprese collettive) dai due volumi inaugurali e davvero segnati dallo spirito del tempo, La letteratura del benessere (1968) e La rivoluzione della letteratura (’70), fino ai recenti e complessivi Per esempio il Novecento (2008), Il vecchio che avanza (2009) e Giro di vita (2010). Quanto agli autori, si potrebbe aggiungere che il Canone secolare di Pedullà è in effetti un anti-Canone, assortito di profili laterali ed inclassificabili, da Palazzeschi, padre di Perelà l’omino di fumo, a Svevo (Lo schiaffo di Svevo, ’90), da Gadda a un fuoriclasse tuttora ex lege per cui si veda la bellissima monografia, ma la parola è riduttiva, Savinio scrittore ipocrita e privo di scopo (’79).
SI È DETTO PERSINO ovviamente di Pagliarani e Malerba suoi compagni di via ma andrebbero aggiunti altri outsider ancora più estremi nella fattura linguistica e stilistica. Intanto l’ex questore Antonio Pizzuto, autore di libri di culto quali Si riparano bambole (’60) e Ravenna (’62), supremo stilista accanitamente nominale e anti-narrativo, di cui recupera alla metà degli anni ottanta e quasi per antifrasi una prova giovanile invece leggibilissima e molto prossima al feuilleton, il romanzo Sul ponte di Avignone; poi, recluso in un palinsesto interminabile, linguisticamente estraneo a qualunque grammatica preordinata, lo scrittore siciliano Stefano D’Arrigo, l’autore di Horcynus Orca (’75) di cui l’amico critico acquisisce la stesura genetica, I giorni della fera, e decisiva alla comprensione di quel romanzo presto divenuto leggendario; infine il caso il più oltranzista di esplosività linguistica, Il gazzarra (’65) di Massimo Ferretti, che Pasolini letteralmente liquidò come un oggetto scritto senza possibile destinatario ma che invece lo studioso legge come grido di guerra dei futuri «indiani metropolitani» e antidoto prezioso a una «avanguardia che non può finire in accademia».
PER PEDULLÀ, in prima persona, la letteratura non è un punto di partenza e nemmeno di arrivo ma è il tramite di una utopia della pienezza umanistica cui Il pallone di stoffa allude nel suo moto circolare, vorticoso: l’infanzia e la adolescenza, in anni difficili, all’interno di una famiglia calabrese di piccolissima borghesia (in cui spiccano le figure del padre, un sarto, e del fratello maggiore Gesumino, grecista e martire dell’antifascismo, figura esemplare agli occhi del giovane Walter); gli studi a Messina, le fatiche del precariato intellettuale e, con il ’56, il trasferimento nella capitale, poi il lavoro frenetico tra il giornale, l’insegnamento alla Sapienza e gli impegni della militanza politica; infine la diretta esperienza delle istituzioni impattate con ironia, con un riso che ignora la iattanza della irrisione ed è la cifra stilistica anche della prosa di Pedullà, la sua autentica Stimmung.
Si aggiunga che Il pallone di stoffa, costruito per segmenti, e a cadenza, scosso da deragliamenti dalla linea cronologica, vede sfilare decine di protagonisti della vicenda letteraria e politica ritratti frontalmente o di scorcio, e alcuni sul serio indimenticabili come un Gadda 1957, colto in tutto il suo impacciato mutismo, ovvero il Cesare Garboli anni novanta imprigionato nella morsura di un ricordo sgradevole.
LO STILE DEL CRITICO mostra una affinità elettiva con gli autori anticanonici, la sua prosa ha un passo rapido e sghembo, la parola aderisce alla propria superficie mostrandosi persuasa del fatto che proprio lì si manifesta la profondità del senso: «Cerco piuttosto il suono insofferente della melodia, il ritmo che inciampa per attirare l’attenzione, la parola insignificante da cui esplode una rivelazione, il periodo che si aggroviglia per proteggere un segreto, un aggettivo che fa a pugni col suo sostantivo, un verbo che strania un’azione chiara per spiazzare il senso scontato. Sempre a caccia del dettaglio che fa da spia al nucleo più protetto. Il critico come metal detector. Nella notte non sempre si è logici o lucidi, ma il sonno della ragione mi guidava ai mostri che ogni uomo occulta agli altri e a sé stesso».
Leggendo La palla di stoffa, valicando la sequenza dei luoghi, delle azioni e dei volti che lo gremiscono, può venire in mente il romanzo, Uomo nel buio (2008), di un autore che non potrebbe essergli più lontano, Paul Auster: è qui che il protagonista, un critico letterario, si sorprende ad esclamare come rivendicando una divisa morale, «Ne ho raccontate tante in vita mia, ma sui libri io non mento mai».
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SCHEDA. Note biografiche di un critico
Walter Pedullà è nato a Siderno nel 1930 e ha studiato a Messina con Giacomo Debenedetti con cui si è laureato divenendone poi assistente all’università di Roma. Alla Sapienza ha insegnato Letteratura italiana moderna e contemporanea fino al 2005. Militante della sinistra socialista ha scritto per decenni sull’«Avanti!» e altri periodici. Già consigliere di amministrazione, è stato presidente della Rai fra il ’92 e il ’93 e poi del Teatro di Roma. Ha diretto per il Poligrafico dello Stato la collana Cento libri per Mille anni e condiretto con Nino Borsellino per Rizzoli la Storia generale della letteratura italiana (’99). Nel 2001 ha fondato le riviste «Il Caffè illustrato», e «L’Illuminista» che esce tuttora.
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