Pedine lucenti e linee ortogonali, effetto metafisico
Con molta probabilità gli scacchi nacquero in India intorno al VI secolo. Il Chaturanga – questo era il nome originario – si giocava su una scacchiera divisa in quattro schieramenti d’otto pezzi ciascuno. Le figure delle pedine corrispondevano al genere delle armate indiane, la loro disposizione alla tipologia più frequente degli schieramenti, con gli elefanti al centro, i carri ai fianchi e la fanteria davanti al Re.
Questi, allora come adesso, si trovava in mezzo alle altre pedine, ma aveva accanto a sé non la sua Regina bensì un Consigliere o un Primo Ministro, il quale, forse, secondo un ordine cosmologico, avrebbe anche potuto rappresentare il fuoco, come il carro da battaglia la terra e l’elefante l’aria. Al principio, tuttavia, gli scacchi dovevano essere stati un gioco di dadi, come apprendiamo dagli autori di questo sontuosissimo libro edito da Franco Maria Ricci Sulla scacchiera Arte e scienza degli scacchi (testi di Zachary F. Mainen, Raznav Sandru, Stefano Salis, Adolivio Capece; fotografie di Massimo Listri, pp. 168, euro 60,00), sicché i suoi primitivi giocatori avrebbero somigliato all’Achille e all’Aiace che vediamo raffigurati, chini sulle combinazioni aleatorie, nella famosa anfora di Exekias dei Musei Vaticani. È plausibile che i risultati venissero segnati con un sasso su delle linee orizzontali o verticali, prodromi delle future scacchiere.
Dalla Persia, dove cominciò a prendere una forma più vicina a quella attuale, il gioco si mosse poi sulle carovane e sulle navi alla volta dell’Europa medievale. Era l’epoca dei romanzi cortesi, il Vizir o Consigliere lasciò, così, il posto alla Regina ch’era Donna in quel senso etimologico di domina che si trova tanto spesso al centro della lirica amorosa. La libertà di movimento che aveva acquisito la sua pedina rispetto alle altre ne faceva, infatti, l’incontestabile Signora della scacchiera al punto che non si farebbe fatica a immaginarla nella stessa maniera in cui era raffigurata Doralice nello stendardo di Rodomonte: reggente la briglia d’un ammansito leone.
Ma, com’è loro tradizione, le edizioni di Franco Maria Ricci – che sono sempre state fra le più prestigiose della nostra editoria – non esauriscono il loro interesse nel raccontare la storia degli oggetti che amano. Come i labirinti, come le fontane, come gli automi, come le polene, come tutti gli oggetti che hanno soggiogato per secoli la fantasia del genere umano, così anche le scacchiere hanno qualcosa d’archetipico. Le vediamo sfilarsi dal loro fondo nero nelle magnifiche fotografie di Listri, assieme alle loro pedine, isolate e lucenti, quasi ad acquistare un rilievo metafisico. «Perché ci affascinano?» – si domanda Stefano Salis – «E cosa rappresentano?».
Difficile dirlo. Sappiamo che nel Medioevo godettero di molto prestigio, sebbene più tardi moralisti come il Savonarola mettessero gli scacchi insieme ai molti trastulli i quali, col distogliere la mente dal cammino spirituale, spianavano la via a quell’altro, che portava giù giù sin nelle gorge dell’Inferno. Essi, tuttavia, furono praticati anche da uomini di indubbia probità, come Alfonso X di Castiglia e León, detto il Saggio, il quale, intorno al 1283, nel suo Libro de los juegos ne illustrò il valore morale, di contro a giochi come la triga o l’azar che, per il fatto di basarsi quasi esclusivamente sull’azzardo, s’addicevano ai frequentatori delle bische assai meglio che non ai principi di sangue.
Le partite di scacchi, con le loro mosse e contromosse, si trovarono di volta in volta a simboleggiare il corteggiamento, il governo degli stati o, più generalmente, la maniera savia di condursi nelle cose di questo mondo. Salis ci ricorda come nel racconto di Nabokov La difesa di Lužin lo scacchista sia un doppio dello scrittore stesso ma se, come leggiamo nel libro, «probabilmente gli scacchi sono la cosa finita che più s’avvicina all’infinito», esercitandosi la creatività del giocatore entro un numero fisso di regole e di caselle, non si può estendere la metafora allo spirito classico che trova nell’imitazione dell’antico e nell’utilizzo di forme codificate, come l’alessandrino o il sonetto, uno stimolo, invece che una costrizione, della fantasia?
Se furono amati da diversi poeti e scrittori, al punto da esser alle volte identificati con lo stesso mestiere di scrivere, gli scacchi ebbero, tuttavia, almeno un prestigioso detrattore in Edgar Allan Poe. Egli, infatti, nel suo famoso racconto Gli assassinii della Rue Morgue, li giudicò inferiori alla dama per la parte che vi prendevano elementi estranei alle pure facoltà intellettuali, come ad esempio la concentrazione: «essendo – scriveva a proposito degli scacchi – i movimenti possibili, oltre che varii, involuti, le occasioni di quelle sviste ne vengono moltiplicate; e in nove casi su dieci non è il giocatore più acuto ma il più concentrato che vince». Sarà forse per quella sua visione un po’ troppo astratta e meccanica dell’intelligenza analitica – come gli rimproverò tra gli altri H.D. Lawrence – che il grande scrittore di Boston giudicò gli scacchi mentalmente poco seri?
A suo dire la profondità degli scacchi era apparente: in realtà essi erano solamente tortuosi. A differenza del Marco Polo immaginato da Italo Calvino che «disponendo sulla scacchiera torri incombenti e cavalli ombrosi, addensando sciami di pedine, tracciando viali diritti o obliqui come l’incedere della regina, ricreava le prospettive e gli spazi di città bianche e nere nelle notti di luna», la complessità delle loro regole non riuscivano nemmeno a stimolarne la copiosa fantasia di narratore. Né si lasciò sedurre dalla scacchiera, con le sue infinite possibilità moltiplicatorie che stanno alla base della nota leggenda – riportata anche dagli autori – dei chicchi di riso che, raddoppiati di casella in casella, avrebbero raggiunto un numero talmente esorbitante da mettere in difficoltà il re che li aveva incautamente promessi a un suo suddito.
Una volta, tuttavia, anche Poe s’interessò all’argomento, e fu per il famoso caso del giocatore di scacchi di Maelzel, al quale dedicò un articolo. Nel libro se ne ricorda succintamente la vicenda: il giocatore – un androide in abiti ottomani collegato a un grosso scatolone su cui era collocata la scacchiera – era stato costruito nel 1770 dal barone ungherese Wolfgang von Kempelen per trastullo della corte austriaca. In realtà il «Turco» aveva ben poco dell’automa e molto della marionetta. Ogni suo movimento era infatti regolato da un nano che, nascosto in un vano della macchina – proprio lì dove avrebbero dovuto essere collocati gli ingranaggi –, osservava le mosse dell’avversario grazie a un sistema di magneti posto sotto la scacchiera.
Dopo aver costituito, per un certo tempo, lo svago di Maria Teresa d’Austria, l’ingegnosa invenzione di von Kempelen prese a errare per l’Europa e per l’America dove, quando non aveva l’onore di sfidare avversari della levatura di Benjamin Franklin o di Napoleone, si trovava a sollecitare le menti ben più volgari dei frequentatori delle fiere, fino a che nel 1854 non venne distrutto da un incendio.
Come s’è detto, il «Turco» era in realtà un nano. Oggi invece i rapporti si sono invertiti e non vi è uomo che possa eguagliare un calcolatore. Nel 1997 Deep Blue riuscì a battere il campione Kasparov: «la vittoria di Deep Blue – scrive Salis – era un risultato epocale (…) nel momento in cui quella capacità è diventata tale da battere il campione del mondo, c’è poco altro da dire». Ma Deep Blue aveva sopraffatto il suo sfidante «con la forza bruta dei numeri», mentre processori più aggiornati e sofisticati, come AlphaZero, riescono perfino ad apprendere le regole scacchistiche, autoistruendosi come pure intelligenze artificiali. Forse, in un giorno non lontano, avranno anche fattezze antropomorfe. Accadrà allora l’opposto di quel che avveniva col giocatore di Maelzel: sarà la macchina a fingersi uomo.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento