Visioni

Pedali per la libertà

Pedali per la libertàIllustrazione di Adams Carvalho

Oggetti rivoluzionari I benpensanti si scandalizzarono non poco vedendo le prime donne inforcare un sellino. E lo stesso Karl von Drais, l’inventore della bicicletta, fu il primo a indicare la sua creatura come oltraggiosa per il pudore femminile

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 8 marzo 2016

Quando a metà Ottocento, più o meno, le donne cominciarono a salire sulle biciclette, si presero un sacco di libertà che non erano scontate. Potevano muoversi in autonomia, andare dove volevano senza accompagnatore, accorciare le gonne, indossare i pantaloni e mettere in discussione il valore della verginità.

Non è un caso se, nel 1896, Susan Brownell Anthony, attivista e pioniera americana dei diritti civili, scriveva: «Penso che la bicicletta abbia fatto di più per emancipare le donne di qualsiasi altra cosa al mondo. Gioisco ogni volta che vedo una donna in bicicletta. Dà la sensazione di autonomia e indipendenza e nel momento in cui prende posto, e lei va via, è l’immagine della femminilità senza ostacoli».

I benpensanti si erano molto scandalizzati vedendo le prime donne inforcare un sellino. Sapevano che quel gesto avrebbe cambiato i pesi del potere. Karl von Drais, l’inventore della bicicletta, fu il primo a indicare la sua stessa creatura come oltraggiosa per il pudore delle donne che, montandola, avrebbero scoperto polpacci e caviglie, allargato le gambe, assunto una posizione sconveniente.

Se all’inizio le donne in bicicletta furono denigrate, derise o addirittura prese a sassate per la strada, alla fine dell’Ottocento si tentò la strada della scienza e certi medici sostennero che la bicicletta era pericolosa per la salute femminile in quanto disturbava il sistema nervoso, danneggiava le ovaie, era dannosa durante le mestruazioni. I preti corsero a sostenerli dicendo che la bicicletta era peccaminosa soprattutto per colpa del sellino in quanto, con l’attrito dello sfregamento, gli organi genitali sarebbero stati stimolati favorendo la masturbazione.
La prova che la bicicletta ha in sé qualcosa di rivoluzionario lo dimostra il fatto che in certi stati, come l’Arabia Saudita, l’Iran, parte dell’Afghanistan e la Corea del Nord, è ancora vietata alle donne, mentre in molti altri Paesi è considerata disdicevole. Per chi come me che viene da una terra dove, quasi quasi, si impara prima a pedalare che a camminare, una tale proibizione scatenerebbe la rivolta.

La mia prima bicicletta fu una Bianchi rossa con le rotelle, poi arrivò una Sovrana grigio metallizzato, partendo per la città mi portai la vecchia Atala della nonna che fu presto rubata. Infine scelsi la Zanazzi che ancora oggi mi accompagna. Renzo Zanazzi era stato un campione di ciclismo, nonché gregario di Coppi e Bartali, e aveva un piccola officina di biciclette in via Solari a Milano. Prima di vendermi una delle sue creazioni mi squadrò, mi fece tornare due volte, poi cedette. Era la fine degli anni Ottanta e quella Zanazzi mi costò un quarto di stipendio. Visto che non possedevo un’auto, la cosa a molti sembrò una stramberia acuta.

Ho cambiato uomini, case, città, ma ho sempre portato con me una bicicletta e so che così sempre sarà, perché ho bisogno di sapere che lei c’è. È curioso come si possa amare un oggetto quasi come una persona. In verità la bicicletta non è solo un oggetto, ma un virus, il virus della libertà e dell’orizzonte aperto.

C’è una scena all’inizio de La Luna di Bernardo Bertolucci che, almeno ai miei occhi, rappresenta quella sensazione. Jill Clayburgh/Caterina pedala lungo una strada sul litorale laziale. È una notte d’estate, la luna è piena, grande, limpida. Lei indossa un abito bianco che vola sopra alla ruota e al fanale acceso. Intuisci il vento che le accarezza il viso, le gambe e le spalle nude. Non si sentono rumori di auto, ma solo il suono della dinamo, quel ronzio che tiene compagnia a chi pedala nel buio.

Quando mi misero per la prima volta sopra un sellino avevo diciotto mesi. Non arrivavo ai pedali, così mio padre vi attaccò due blocchetti di legno fatti da lui per riempire lo spazio mancante. Le rotelle di dietro mi davano stabilità. Appena ci salii mi sentii come a casa. Spinsi il pedale e lì iniziò la mia storia d’amore con lei. Quella piccola Bianchi rossa mi permetteva di scorribandare attorno al cortile, nel prato, nel campo delle bocce, quando il nonno non vedeva sennò si arrabbiava perché gli rovinavo il fondo di terra battuta. Con la Bianchi da bambina entravo nelle buche, nelle pozzanghere, saltavo sui sassi, prendevo le curve alla larga e alla stretta e lei non mi tradiva mai. Eravamo fatte l’una per l’altra.

Era l’inizio degli anni Sessanta e non sapevo che altre donne, molto prima di me e in altre parti del mondo, avevano fatto della bicicletta uno strumento di emancipazione. Guardavo le altre pedalare e questo bastava, mi sentivo parte di un tutto. Va detto anche che le donne emiliano-romagnole fanno dell’andare in bicicletta un vanto e un’arte, perché la sanno usare con i tacchi alti e le sottane strette, conoscono la malizia delle gonne larghe che a ogni pedalata scoprono le cosce e a volte qualcosa di più, sanno dosare la spinta senza ingobbire la schiena.

Sul ponte di mezzo a Parma, una volta ho visto il traffico bloccarsi di fronte a una ragazza che per pedalare con agio si era tirata su fino all’inguine lo stretto vestito di pizzo di sangallo giallo… Nella composta Milano una scena così sarebbe inimmaginabile, e infatti non l’ho mai vista. Questo per dire come l’arte del pedalare può indirizzare quella della seduzione e influenzare gli usi e i costumi.

Da piccola facevo spesso un sogno: pedalavo, pedalavo, pedalavo finché la bicicletta si staccava dal suolo e cominciava a volare, e io volavo con lei. Auguro a tutte le bambine e le donne del mondo che questo sogno diventi realtà.

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