Pd, un non-partito proiettato alla deriva
A dieci anni dalla nascita, il Pd si conferma non tanto un amalgama mal riuscito quanto un esperimento fallito. È rimasto in giro un ibrido pericoloso per gli effetti sprigionati […]
A dieci anni dalla nascita, il Pd si conferma non tanto un amalgama mal riuscito quanto un esperimento fallito. È rimasto in giro un ibrido pericoloso per gli effetti sprigionati […]
A dieci anni dalla nascita, il Pd si conferma non tanto un amalgama mal riuscito quanto un esperimento fallito.
È rimasto in giro un ibrido pericoloso per gli effetti sprigionati dai suoi detriti impazziti.
A confrontare la foto dei fondatori con quella degli attuali capi, viene la stessa impressione suscitata dalle immagini dei grandi protagonisti dell’Ottobre sovietico il cui volto all’improvviso scomparve dalla iconografia ufficiale del regime.
Il cattolicesimo sociale più radicale e con venature di rosso (Rosy Bindi) è fuggita da tempo dall’abbraccio con il cerchio gigliato di Rignano. I cattolici adulti (Prodi, Parisi, Monaco) hanno già allontanato la tenda dall’accampamento di un partito sfigurato. I cattolici dell’ala tecnico-moderata (Letta) sono inorriditi dalle arti magiche vendute all’ingrosso dal populismo di governo.
Tra i cattolici conservatori restano in scuderia gli andreottiani Guerini e Fioroni, l’ultra moderato Lotti, la fanfaniana Boschi che, rimuovendo organiche inclinazioni bancarie con un impeto di egualitarismo, propone di pagare allo stesso modo i calciatori maschi e femmine, il manipolatore delle regole democratiche del voto (Rosato). E si barcamena tra le macerie l’eterno viandante Franceschini che idee non coltiva ma si pone agli ordini di qualsiasi leader, pur di conservare margini di potere.
A resistere, tra quanti vengono dalla sinistra, sono soltanto i piemontesi che giocano a carte con Marchionne e controllano gli enti locali e le fondazioni bancarie (Fassino, Chiamparino), il vecchio capo delle cooperative un tempo rosse e ora affiliate alla confindustria, la signora Finocchiaro, cui è stato affidato il compito ingrato di chiedere la fiducia per una legge elettorale denominata persino da Repubblica come «un colpo di mano», il ministro degli «sbirri» (come lui dice) che soccorre i migranti con i campi di reclusione in Libia.
E poi ricama in teatro le sue sceneggiature Veltroni che però appartiene ormai al mondo del cinema e quindi, se parla di politica, cammina tra i sentieri immateriali del verosimile filmico.
Senza l’antica componente comunista (Reichlin ordinò la fuga votando no al plebiscito di dicembre), con la distanza abissale dalla Cgil, con lo strappo di Bersani, D’Alema, Rossi, Bassolino, Errani che provano a riorganizzare una sinistra autonoma, il Pd si configura come un non-partito del capo che gestisce candidature, tesse legami con potenze economico-finanziarie.
Resiste in quel ginepraio il mite Cuperlo che, all’affannosa ricerca di una mediazione culturale alta, mostra una volontà d’acciaio nel forzare se stesso a credere che una possibilità di influenza ancora rimane a disposizione nell’inferno del Nazareno.
E anche Orlando prima o poi si riconcilierà con il principio di realtà rinunciando a inseguire i mulini a vento di una mitica ricollocazione del Pd in una area culturale di sinistra. Da una casa del tutto inospitale, proseguirà un nuovo esodo.
Con Renzi vengono condotti ad esiti estremi i germi che però insidiavano dall’inizio il corpo del nuovo soggetto. Già Veltroni aveva celebrato il ruolo egemonico dell’impresa, condannato ogni idea di conflitto sociale per i diritti del lavoro.
Esibendo il computer con la mela, Renzi porta ai limiti inusitati questo sradicamento sociale del partito tramutandolo in veicolo di poteri finanziari. La precarietà viene eretta a sistema di vita con il Jobs Act. E con le decontribuzioni, gli sgravi, i sostegni alle banche le risorse assai scarse del pubblico sono indirizzate verso le agenzie del profitto privato.
Fu Veltroni a teorizzare un liquido partito del leader, che vive con un non-congresso e coltiva la sbiadita identità del «ma anche». Il non-partito dei gazebo lo nominò comandante e, con lo scettro appena ricevuto, invece di puntellare il gracile esecutivo dell’Unione concordò con Berlusconi una nuova legge elettorale, poi sventata, e con pratiche irrituali indusse Prodi all’abbandono del governo.
Renzi va oltre. Dal partito del leader che convive con una oligarchia trapassa al partito personale che rottama come macchine inanimate i gruppi dirigenti, le strutture organizzative, recide le radici sociali e i profili ideali.
Abbandonato dal mondo del lavoro, rigettato dalla scuola, graffiato dalla diserzione delle regioni rosse, dal disagio giovanile, dallo spaesamento del popolo di sinistra, il Pd è attraversato da un malessere che ne paralizza il presente e ne distrugge il futuro.
Non solo dopo Renzi il Pd non è recuperabile, ma le sue scelte in materia sociale, istituzionale costituiscono una insidia per la repubblica. Nella storia repubblicana la sinistra politica e sociale è stato l’argine alla deriva della democrazia.
L’artefice di un plebiscito per l’acclamazione del capo non accetta la lezione di dicembre e reitera l’attacco al cuore del parlamentarismo ordinando il voto di fiducia per imporre una legge elettorale concordata con Salvini per penalizzare il M5S e la sinistra. Dopo dieci anni, il Pd ha poco da festeggiare. E la democrazia ha molto da stare in guardia dalle mosse avventate partorite dal Nazareno.
Certe forzature costituzionali sembrano purtroppo evocare un imminente ritorno della destra.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento