Alla convention milanese di Stefano Bonaccini, in un «talent garden» a pochi passi da porta Romana, sembra di precipitare nel 2013. In un format che fa tanto Leopolda, decine di interventi da tre minuti a testa col gong finale (tanto che Irene Tinagli sbuffa: «sembra di essere alla corrida»), stacchetti musicali by Cesare Cremonini, tutta la prima fila del renzismo sfila per l’intera giornata per dire che «bisogna cambiare la classe dirigente».

Da Pina Picierno, vicesegretaria in pectore che fa la padrona di casa, a Simona Bonafè, Dario Nardella, Giorgio Gori, Simona Malpezzi, Debora Serracchiani, i renziani non pentiti si preparano a scalare il partito dietro i rayban fiammanti di Bonaccini, che fu uno dei primi sostenitori di Renzi. In prima fila Lorenzo Guerini, burattinaio nell’ombra di tutta l’operazione: da settimane non dice una parola sul congresso, la sua influenza è opposta alla sua visibilità.

MANCANO SOLO MATTEO e Maria Elena, col primo che da casa ironizza sui social sulla presenza in sala dell’ex grillino Dino Giarrusso, improvvisamente convertito sulla via di Bonaccini dopo essere passato dall’alleanza con Cateno De Luca in Sicilia, accolto dal gelo della platea e dalle proteste di Gori: «Siamo troppo inclusivi, serve un limite».

E Renzi fa finta di arrabbiarsi: «Giarrusso? Finalmente smetteranno di dire che Bonaccini è renziano, sono felice per lui». Il fiorentino in realtà è un po’ arrabbiato perché l’amico Stefano, venerdì davanti ai cancelli di Mirafiori, ha osato dire che «intervenire sull’articolo 18 è stato un errore» e che «è tempo di superare il Jobs Act».

PICCOLI BUFFETTI, CHE NON scalfiscono la sostanziale identità delle piattaforme, all’insegna di quel «riformismo» che si limite a evocare genericamente la «lotta alle diseguaglianze», senza mettere in discussione le scelte di questi 15 anni. A partire dalla vocazione maggioritaria e dall’equidistanza tra lavoratori e imprenditori.

E così spunta Gori che grida «ricchezza, ricchezza», e non si capisce se sia un dato autobiografico o un programma politico. Arriva l’assessore di Roma Alessandro Onorato (sembra uscito da una convention di Forza Italia), e scomoda a sproposito Giuseppe Di Vittorio per dire che «è necessaria la collaborazione tra lavoratori e imprenditori». E aggiunge: «Certo che vanno messe da parte le persone che hanno fallito, qualunque azienda lo farebbe».

Ancora Gori: «Nel nuovo manifesto del Pd non c’è la parola crescita, ma guardate che non è una parolaccia». Serracchiani si infervora: «Siamo partiti con una fase costituente e siamo arrivati a alla liquidazione del Pd, questo è inaccettabile». Poi una stilettata a Schlein: «L’idea che il primo che passa possa fare il leader non mi convince».

I DIECI ANNI PASSATI sembrano una fastidiosa polvere da mettere sotto il tappeto. Il cuore del dibattito è la selezione della classe dirigente: «Ho fatto uno studio: più i nostri parlamentari sono produttivi, meno sono rieleggibili, bisogna cambiare i criteri», dice Irene Tinagli. Il sindaco di Bari Antonio Decaro è ancora più duro: «In questi anni ho visto persone assolutamente incapaci che hanno fatto i ministri grazie alla corrente giusta. La gente ci vota nei comuni nonostante siamo del Pd. Stefano aiutaci a cambiare questo partito!».

E via sfuriate contro il «partito romano» contrapposto a sindaci e amministratori. «Non ne possiamo più, noi le elezioni le sappiamo vincere, governiamo il 70% dei comuni, ma nessuno è mai venuto a chiederci come si fa». Sarcastica la replica di Orlando: «Almeno ai tempi di Renzi la rottamazione era invocata da giovani. Adesso sono persone tra i 50 e i 60 anni, è abbastanza comico».

IL LEIT MOTIV DI FONDO è questo: «Sui territori sappiamo coniugare il sogno e i fatti concreti, noi abbiamo la semplicità di parlare alla gente al bar», dice Nardella. «Siamo il popolo di chi si rimbocca le maniche per parlare con la gente». Cercando qualcosa di progressista, si trovano scuola e sanità pubbliche, difese a oltranza, e anche la transizione ecologica che però non deve disturbare troppo la crescita.

SECCA LA RETROMARCIA sull’autonomia differenziata, che pure è uno dei talloni d’Achille di Bonaccini, tra i primi a proporla con i colleghi leghisti Zaia e Fontana. «La Lega vuole dividere l’Italia, questo paese deve essere ricucito», tuona Matteo Ricci. E Piero De Luca, responsabile mezzogiorno della mozione: «Il progetto di Calderoli è irricevibile».

A METÀ MATTINA SUL PALCO si materializza Dino Giarrusso, l’ex jena tv che ha lasciato da pochi mesi il M5S di Conte al grido di «è diventato lo zerbino del Pd». «Entro in punta di piedi, negli anni ho criticato la sinistra perché le voglio bene. Credo nel progetto di Bonaccini». E cita De Gregori: «Sempre dalla stessa parte mi troverai..».

La platea è sbalordita, parte qualche fischio. «Prima dovrebbe scusa», s’infuria Fassino. «Ci ha infangato fino a ieri», gli fa eco Paola De Micheli. Nardella prima dice che «se c’è una persona che ci ha attaccato per anni e poi viene qui, è una nostra vittoria. Noi non abbiamo cambiato idea e non portiamo rancore». Poi si corregge: «Guai se qualcuno volesse salire sul carro del vincitore».

Ovazione per Gori che invita a metterlo alla porta. Provenzano, sostenitore di Schlein, è gelido: «Forse Bonaccini è stato mal consigliato». Secca anche Schlein: «Ognuno sceglie la sua squadra». Calenda si dice «allibito»: «Un sincero ringraziamento da parte del terzo polo…». Oggi gran chiusura col governatore emiliano.