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Pd e M5S, barricate contro Berlusconi al Quirinale

Pd e M5S, barricate contro Berlusconi al QuirinaleSilvio Berlusconi – LaPresse

La corsa Patuanelli: da noi nessun voto. Il Cavaliere avverte gli alleati. Meloni: non ci sono i numeri

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 19 dicembre 2021

Pd e M5S alzano le barricate contro il fantasma di Berlusconi al Quirinale. «Dal mio partito non c’è assolutamente il consenso», dice dal Pd il sottosegretario agli affari Ue Enzo Amendola. Che ribadisce la linea di Enrico Letta: «Ci deve essere il consenso di tutte le forze politiche: il nome che si sceglie è un nome dell’arbitro, non di un leader di partito». Così anche Francesco Boccia: «Su una cosa il Pd è intransigente: il presidente deve essere garante dell’unità nazionale e permettere a questo Parlamento di ritrovarsi sullo stesso profilo».

ANCORA PIÙ CHIARO il ministro M5S Stefano Patuanelli: «Berlusconi sicuramente non avrà mai il voto di nessuno di noi», spiega a proposito delle indiscrezioni su 7 grillini pronti a cedere alle lusinghe del Cavaliere. «Non riteniamo sia la figura di garanzia giusta per fare il Capo dello Stato. Servono ragionamenti su persone che uniscano il Paese», ha aggiunto Patuanelli.

ANCHE A DESTRA L’IPOTESI Berlusconi continua ad agitare le acque. Di ieri uno sfogo del Cavaliere- riportato da Repubblica- che avrebbe avvertito gli alleati Salvini e Meloni: «Se faccio la fine di Prodi salta il centrodestra». Un modo per invitarli a non fare scherzi, con la velata minaccia di farli sparire dalle reti Mediaset dove i due sovranisti mietono consensi. Parole smentite da Antonio Tajani ma non da Arcore.

Meloni però continua a non credere all’ipotesi e ribadisce la necessità di una «figura inclusiva, più persone rappresenta meglio è». «Berlusconi? Bisogna vedere se ci sono i numeri perché quelli del centrodestra non bastano». La leader di Fdi sembra più orientata verso la figura di Draghi: «Una persona dotata di grande autorevolezza, ma oggi non ho gli elementi per dire come voterebbe Fratelli d’Italia davanti a una sua candidatura».

Salvini, che venerdì aveva intimato a Draghi di «restare a palazzo Chigi», fa una mezza marcia indietro: «Non metto veti nei confronti di nessuno e tutti hanno titolo di presentarsi». Il leghista annuncia un vertice del centrodestra «la settimana prossima» (ma da Fdi rinviano a dopo la manovra). «Siamo e saremo compatti». E non chiude all’ipotesi che in quel mondo sta prendendo quota: Letizia Moratti. «Non faccio nomi, ne parleremo a gennaio», sibila ai cronisti.

Una conferma che sul nome della vicepresidente della Regione Lombardia c’è più di un ragionamento: consentirebbe a Berlusconi di fare il king maker ritirandosi per favorire la salita della prima donna al Quirinale. Tolto il Cavaliere, in fondo, a destra girano solo due nomi davvero pababili: Moratti e l’ex presidente del Senato Marcello Pera.

DAL PD RIBADISCONO il no non solo a Berlusconi, ma a tutte le figure di parte. Dietro le quinte il lavorio mira all’elezione di Draghi, possibilmente al primo turno, come avvenne con Ciampi nel 1999. L’obiettivo è stroncare i giochini tra Salvini e Renzi facendo leva su Meloni. Il ragionamento che circola in casa dem è che «solo con una figura di garanzia come Draghi al Colle Meloni può candidarsi a palazzo Chigi senza scatenare reazioni internazionali».

Ed è proprio questa la ragione che lega Letta e Meloni in questa fase: mandare Draghi al Quirinale per poi contendersi palazzo Chigi da leader dei rispettivi schieramenti, legittimandosi a vicenda.
Lo schema sembra semplice, ma realizzarlo sarà molto più difficile, in primo luogo perché Salvini non vuole stare fuori dai giochi. La seconda ragione è che il fantasma di Berlusconi resta al centro della scena. E ci resterà almeno fino a metà gennaio. Tanto da far pensare a Pd e M5S a mosse azzardate, come quella di non partecipare alle prime votazioni, per dimostrare che il capo di Forza Italia non ha i numeri. E anche per evitare che qualche grillino possa votare Berlusconi protetto dal segreto dell’urna.

A FERMARE QUESTI ESASPERATI giochi tattici potrebbe essere proprio Mario Draghi. Se il 22 dicembre nella conferenza stampa di fine anno dovesse far capire che non gli dispiacerebbe chiudere la carriera al Quirinale, i partiti dovrebbero adeguarsi. Anche perché, insistono dal Pd, «se la destra si elegge un presidente di parte il governo cade e si corre al voto. Già siamo al limite delle fibrillazioni adesso, figuriamoci dopo uno strappo del genere».

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