Pawel Lozinski, viaggiatore dell’anima
Festival dei Popoli Si è concluso a Firenze il 57° festival dei Popoli. In concorso l'ultimo film del regista polacco
Festival dei Popoli Si è concluso a Firenze il 57° festival dei Popoli. In concorso l'ultimo film del regista polacco
Sul confine di zone intimamente private della nostra esistenza. Mentre le frontiere di ciò che è assolutamente personale e non condivisibile vengono continuamente spostate. Come si pone il cinema innanzi a tutto questo? E fin dove a un documentario è lecito spingersi, in che modo può parlare un linguaggio altro, agire una dialettica rivoluzionaria tra etica dell’inviolabilità individuale e conoscenza profonda dell’umano?
C’è una linea tangibile di ricerca al 57º Festival dei Popoli – conclusosi ieri a Firenze, con la guida di Alberto Lastrucci – accanto a una spiccata cifra politica di interlocuzione con il mondo, si è indagato anche sul bordo di vissuti soggettivi più irriducibili e intimi. Come facce inseparabili di un tutto. (E come nello spietato e meraviglioso Dans le champs de bataille, di Danielle Arbid, cineasta libanese cui è stata dedicata una sezione monografica con lo stesso titolo).
In questa direzione, è difficile non restare affascinati da You Have No Idea How Much I Love You (Non hai idea di quanto ti ami), di Pawel Lozinski, il cui sguardo si affaccia sulle sessioni di terapia familiare di Ewa e Anya, madre e figlia: come «incomunicabilità» genealogica primaria, in triangolazione con la presenza del loro psicoterapeuta. L’azzardo, dunque, è in primis sporgersi su un luogo, quello della seduta di psicoterapia, precluso per essenza a tutti coloro che non siano i diretti interessati, qualcosa che suscita remore e attrazione, insieme a un serpeggiare di domande che si moltiplicheranno innanzi ai primi titoli di coda, ovviamente non svelabili.
Perché, se non esistono due visioni identiche di una stessa opera nemmeno per gli stessi occhi, in questo caso, ciò sarà massimamente vero. E a lungo ci si potrà interrogare su quale sarebbe stata la percezione del tutto, nell’ipotesi in cui quelle righe non fossero state poste in calce al documentario. Ma l’azzardo sarà anche l’impronta stilistica voluta da Lozinski per l’intera opera, una teoria di primi piani su fondo grigio, il tempo reinventato della singola seduta, segnato da una pausa su fondo nero. Sì, ci troveremo in presenza di un unico lemma dell’alfabeto cinema: close up come eco delle accezioni sperimentate dai maestri, Bergman su tutti, ma anche come svelamento di paesaggi emozionali umani che, considerato il contesto, mai saremmo stati in grado di vedere.
Parliamo della progressiva inermità di Anya, la figlia, colei che ha voluto gli incontri, 25 anni e un aspetto da adolescente imbronciata, la casa materna abbandonata già da qualche anno e un groppo in gola ogni volta che si appresta a tornarvi, e parliamo dell’inermità di Ewa, la madre, rimasta «sola con un gatto e lo yoga». Sono le loro interiorità chiamate in causa che si fronteggiano, si ritraggono, si specchiano, tra silenzi e lacrime, difese che si sgretolano, passarsi fazzoletti di carta e sorsi d’acqua…
E ancora il vissuto del divorzio, visto dall’una e dall’altra (nel corto Close Ties, sempre in concorso, è lo sguardo affettuoso della regista Zofia Kowalewska, che si confronta col ménage matrimoniale dei suoi nonni, tornati insieme dopo una separazione), memorie d’infanzia e il rintocco empatico del terapeuta, i suoi occhi lucidi per un attimo: perché sei qui? Puoi dire una parola alla bambina addolorata che eri? Ti accorgi di come una antica immagine di te ti tenga al laccio?
E ancora il viso di una mentre ascolta l’altra, e quello di lui in attesa, e il loro guardarsi come guardare in macchina, al regista e a noi, come cerchi di riflessi in cui inevitabilmente affiorano le memorie personali di ognuno/a. Lozinski, che ha alle spalle una lunga storia di dialogo con il festival, sente il problema umano della solitudine come uno dei più immani (da vedere, su Youtube, l’intervista a firma di Vittorio Iervese, 2013): forse per questo ci invita a un viaggio verso i territori più reconditi dell’anima.
Perché siamo soli alla nascita e alla morte, afferma, qualcosa che si coglie anche nell’onirico La vie à venir di Claudio Capanna, ossia lo spazio sempre privatissimo, stavolta della terapia intensiva per bambini prematuri di un ospedale di Bruxelles (comincia immaginando il rosso fluttuante dell’ambiente intrauterino), visto attraverso il vissuto di due gemellini, maschio e femmina – la cui venuta al mondo rimanda a Leboyer di Per una nascita senza violenza – dei loro genitori, del fratellino e del personale medico.
E se nel film di Lozinski è geniale l’irruzione dei suoni della strada nei titoli finali di un’opera «senza» esterni, qui siamo nel tempo bianco e ovattato di esistenze potenti e fragilissime, nel linguaggio segreto e sussurrato che la madre scambia con loro, nel parlarsi pelle seno, nella conditio sine della vita stessa che verrà… Come dolce sorprendente rivelarsi di un cinema à venir.
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