Le emozioni negli ultimi anni sono state riscoperte in campo biologico, psicologico, filosofico e questo è sicuramente un bene. Nonostante ciò, qualcosa ancora non va. Il fatto è che alla riscoperta delle emozioni ha corrisposto una sorta di oblio delle passioni. Eppure queste, da Descartes a Hobbes, da Spinoza a Hume, erano centrali nella grande filosofia moderna. Che differenza c’è tra emozioni e passioni?

LE EMOZIONI sono perturbazioni che si producono nell’immediato e si ripetono, mentre le passioni riguardano qualcosa che ha a che fare con il desiderio, dunque con il differimento nel tempo, e costituiscono il focus del nostro pensare metaforico e simbolico. Non che questa definizione possa essere applicata sic e simpliciter a Descartes, a Hobbes, a Spinoza, a Hume, e tuttavia varrebbe la pena ripercorrere il sentiero storico filosofico moderno alla luce del diverso sguardo che oggi abbiamo sul rapporto tra ragione e passioni. È quello che ha fatto Giovanni Paoletti con il suo Passioni del tempo. Origine della religione e utilità della storia da Hobbes a Hume, Carocci, pp. 273, euro 29).

Cosa intende Paoletti per «passioni del tempo»? Lo chiarisce nell’Introduzione: «intendo in prima istanza le passioni che non si limitano ad avere un oggetto temporalmente determinato, ma investono il tempo o una sua dimensione in quanto tali: non la paura o la speranza di questo o quell’evento futuro, ad esempio, ma la paura e la speranza del futuro in sé». A Paoletti interessa il momento dell’astrazione e della generalizzazione del concetto così come si dipana nel tempo storico o meglio in un’idea di tempo storico. I due argomenti in gioco, come recita il sottotitolo, sono l’origine della religione e l’utilità della storia colti a partire dalla fine di due topoi del pensiero filosofico, storico e antropologico.

DA UN LATO Emile Durkheim, il quale nel 1912 in Le forme elementari della vita religiosa, mette fine alle teorie dell’origine della religione basate sulla paura. Primus in orbe deos fecit timor: questa idea, che si ritrova in Petronio e in Stazio e nel De rerum natura di Lucrezio e che risale a Democrito, riemerge nel pensiero materialistico moderno e viene riproposta e ripetuta, tra gli altri, non solo da Hobbes, Spinoza e Hume, ma anche da Vico. Durkheim, a proposito del totemismo, sostiene che l’origine della religione non è da attribuire alla paura bensì a sentimenti di fiducia gioiosa. E così un topos che si era ripetuto per secoli crolla e un paradigma si frantuma. Dietro l’idea della paura all’origine della religione vi era una concezione della conoscenza che attribuiva a una mente primitiva l’incomprensione verso i fenomeni irregolari della natura che venivano attribuiti agli dèi. Da Hume, pur così spregiudicato e ironico, si giungerà fino a Frazer e al passaggio dalla magia alla scienza in uno sviluppo progressivo dall’uomo selvaggio all’uomo civilizzato. La visione di Frazer susciterà la feroce critica di Wittgenstein nelle sue Note sul «Ramo d’oro». Dall’altro lato, Nietzsche con il suo Sull’utilità e il danno della storia, fa saltare un altro paradigma, quello dell’utilità della storia. Nietzsche insegna «che il bisogno di storia ha radici più profonde e complesse e che assume forme molteplici… irriducibili a un mero calcolo utilitaristico… L’unica possibilità che egli scarta è che il nostro rapporto con la storia sia del tutto neutro, disinteressato o contemplativo, cioè che non risponda a un bisogno vitale».

ENTRO TALE CONTESTO, Paoletti inquadra la sua indagine sul rapporto paura-futuro, mostrando con lucidità i punti in comune ma soprattutto le differenze tra i quattro filosofi che analizza: Hobbes, Spinoza, Vico, Hume che si rifanno, come detto, alla famosa formula Primus in orbe deos fecit timor. Una formula che si presentava come una rottura di fronte alle due teorie allora dominanti, quella cosiddetta della religione come impostura e l’altra della religione come rivelazione.

Impossibile qui, per ragioni di spazio, dare un quadro analitico dei quattro filosofi in gioco. Ci si limita a Vico. A differenza di Hobbes e di Spinoza, Vico riprende quella formula per storicizzare un tempo dimenticato, ma «in una prospettiva come questa il rapporto fra il momento dell’origine e il presente, fra l’arcaico e il moderno si pone come un raffronto giocato sulla differenza e la distanza, sull’opportunità e prima ancora sull’eventuale possibilità di gettare un ponte fra momenti così lontani fra loro nel tempo». Questo recupero del rapporto tra passato e presente in rapporto a un futuro che si mostra sempre nelle vesti dell’inatteso è ciò che collega, a sua volta, un’indagine storica al nostro presente, cosa che Paoletti fa magistralmente.