In una parola Paura deriva dal latino pavor (timore), da cui anche pavido, pavidità. Declinazioni associate a giudizi morali negativi. Ma la paura è anche un meccanismo indispensabile, agli uomini e agli altri […]

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 1 settembre 2015

Paura deriva dal latino pavor (timore), da cui anche pavido, pavidità. Declinazioni associate a giudizi morali negativi. Ma la paura è anche un meccanismo indispensabile, agli uomini e agli altri animali. È l’allarme che scatta di fronte al pericolo, e che molto spesso ci serve a evitarlo. Fuggendo. Oppure dandoci il tempo, per poco che sia, di riflettere. Analizzare, comprendere, e agire di conseguenza. Altrimenti la paura rischia di annichilirci.

I profughi, i migranti, sono mossi dalla paura della guerra, della violenza, della fame. È una reazione razionale, giusta. Paragonerei la paura assennata delle moltitudini che scappano dai fanatismi e dalle dittature al coraggio senza senno delle non molte centinaia di giovani occidentali che vanno ad arruolarsi nelle file dell’Is.

Un piccolo esperimento mentale che può aiutare a combattere la paura suscitata, all’opposto, dall’arrivo di fuggiaschi nelle nostre benestanti terre? Si amplifica al massimo l’ipotesi che tra loro si mescoli il terrorista, il fanatico islamista, il delinquente, e si rimuove l’evidenza che si tratta di persone che del tutto ragionevolmente rifiutano condizioni di vita insostenibili.

Certo la dimensione del fenomeno, prevedibile e in parte prevista, mette definitivamente l’Europa, ma anche altri paesi del mondo, alla prova della propria civiltà.

Ieri sul Corriere della sera Galli della Loggia metteva la «migrazione di masse umane» al primo posto di quattro «minacce globali» che rischiano di provocare paralisi, e molto peggio. Le altre sono la «tempesta demografica perfetta» (nei paesi “avanzati” si fanno pochi figli: la media è di circa uno e mezzo, come in Germania), i rischi climatici e ambientali (aggravati, specialmente in Italia, dalla speculazione e dal dissesto idrogeologico), il progresso tecnologico nel modo di lavorare (produrrà sicuramente nuova disoccupazione).

Tutte cose vere, e Galli della Loggia sostiene che non esiste dalle nostre parti quel «sentimento collettivo di appartenenza», quell’ethos – una volta garantito dalla religione e dal patriottismo – che potrebbe consentirci di affrontarle. Né esistono governi democratici capaci di operare col necessario respiro, essendo condizionati dal tempo breve dei sondaggi che misurano il consenso.

Ecco allora l’ipotesi di un «potere neutro» di ottimati designati a vita (come la Corte suprema americana), con la missione di orientare l’opinione pubblica, di imporre l’agenda ai governi e di bloccarne i provvedimenti sbagliati. Naturalmente – è la conclusione – non succederà, e il futuro è tenebra.

Ma questa idea del «potere neutro» a vita, dotato della necessaria autorità, non ricorda la vecchia cara aristocrazia? Oppure, come disse un filosofo non molto simpatico, «solo un dio ci può salvare?».

È la radicale sfiducia che la «secolarizzazione individual-cosmopolita ormai dominante» possa produrre quell’ethos collettivo di cui ci sarebbe bisogno. Io penso invece che l’unica via realistica sia proprio scommettere sul cosmopolitismo degli individui. Persone vive e reali, però, non nuove astrazioni teoretiche o istituzionali, cariche di rimpianto per poteri ormai impotenti. Non un impossibile «potere neutro» ma una capacità collettiva di cura, concetto che ci ricorda il nostro essere uomini e donne, in grado di riconoscere le singole individualità nelle moltitudini in cammino e in preda alla paura, da una parte e dall’altra dei nostri mari. I governi – locali, nazionali, globali – dovrebbero decidersi a vedere e valorizzare le realtà che già vivono questo ethos. E dovrebbe farlo ognuno di noi.

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