Come ci ha insegnato Frank Kermode, uno dei grandi critici letterari del Novecento, nel suo brillante saggio Forme d’attenzione, i testi letterari godono di fama non solo e forse non tanto per la loro intrinseca qualità ma per come rispondono all’attenzione di generazioni alterne di lettori: «vengono conservati e tramandati grazie ad argomenti che possono benissimo risultare indegni di questo nome e che comunque si rivelano poi incapaci di resistere alla critica successiva». Per questo scritti e scrittori possono cadere nell’oblio e poi riemergere quando incontrino una comunità, di critici prima e di lettori comuni poi, che li riscoprono per farli poi ricadere nell’oscurità.

Possono essere oscillazioni temporali, come insegna Kermode tracciando la riscoperta di Botticelli alla fine dell’Ottocento, dopo secoli di dimenticanza; e possono essere determinate dalla loro ricezione nelle svariate geografie, come insegnano, per esempio, due autori pressoché coetanei, Philip Roth, tornato alla attualità della cronaca per recenti vicissitudini editoriali, e Thomas Pynchon, considerato negli Stati Uniti di pari statura, ma da noi citato perlopiù sulla base di frusti luoghi comuni, non effettivamente letto, fatta salva una sparuta minoranza.

Un caso a parte è quello di Paul Willems, drammaturgo e narratore belga di lingua francese, del quale escono ora una manciata di racconti e due scritti sulla lettura e sul mestiere dello scrittore, in un volume intitolato La cattedrale di nebbia (Safarà editore, pp. 101, € 19,00), uscito in Francia nel 1983 e ora tradotto con cura e dedizione commoventi da Giuseppe Girimonti Greco e Federico Musardo.

Nel mondo francofono Willems è un autore di spicco, da noi è poco più di un Carneade; prima di questa uscita editoriale, solo due sue pièce, Diceva dormire anziché morire e La vita breve erano state tradotte da Rosalba Gasparro, studiosa del teatro di lingua francese che all’autore belga ha dedicato anche una monografia, Oltre il giardino (entrambi i libri editi da Bulzoni, 2014).

La carriera di Willems è stata lunga e produttiva, e viene ovviamente da chiedersi come mai sia stato completamente ignorato in Italia fino a diciassette anni dalla morte: la prima parte di questa raccolta, che comprende sei racconti brevi, parla a favore dell’ipotesi che la sua scrittura sia disorientante, spiazzante.  In una prosa cristallina e curatissima ci vengono narrate vicende tra il realistico e l’onirico, per esempio nel racconto ’apertura, «Requiem per il pane», dove il senso di colpa del narratore per la morte accidentale di una cugina, avvenuta nell’infanzia, s’intreccia all’ingiunzione da parte della nonna di non tagliare il pane con un coltello, per spezzarlo invece con le mani.

La relazione tra le due questioni segue probabilmente una logica per così dire simbolica: il pane rimanda all’eucarestia e il sangue che lo macchia, quando il narratore si taglia involontariamente, ha a che fare con l’iconografia cristiana, fondata sulla figura di una vittima innocente, che qui è la bambina precipitata dalla finestra all’inizio del racconto.

I racconti di Willems spesso si muovono ai confini del soprannaturale, senza mai varcarli davvero, ciò che rende difficile inquadrare questo scrittore raffinato e anodino, che procede per metafore e simboli. Talvolta, come nel racconto che dà il titolo alla silloge, il simbolismo è decifrabile: la cattedrale di nebbia realizzata dall’architetto V., stufo di edificare chiese di pietra e calcestruzzo, materiali grevi che ambiscono a tornare nelle tenebre del sottosuolo, funziona da emblema della scrittura, che evoca il mondo materiale tramite l’immaterialità della parola.

La potenza del linguaggio è anche centrale nel racconto «L’occhio del cavallo», dove un padre che ha perso la figlia tenta di comunicare con lei attraverso una lingua privata, articolata in metafore poetiche molto pregnanti. Altre volte intuiamo un senso, nelle strane visioni dello scrittore belga, non facile da afferrare: come nell’oscuro (e inquietante) rapporto coniugale del «Palazzo del vuoto» (nel quale l’architettura è forse metafora della vita e della morte che essa include).

A completare la raccolta, due scritti saggistici, uno sulla lettura, affrontata evocando la biblioteca di famiglia dell’autore (discendente da generazioni di letterati); e un altro sulla scrittura, che ci viene illustrata tramite una metaforica caccia alla foca, fortunatamente incruenta. Se è vero, com’è vero, che la voce narrativa di Willems merita attenzione per la sua peculiarità, il resto della sua produzione – che si snoda dal 1941 all’anno della morte, e comprende drammi, romanzi e altri racconti – varrebbe davvero la pena tradurlo.