Paul Morrissey, l’occhio di un eccentrico dell’underground
Cinema Addio all’artista americano «consulente spirituale» di Warhol, protagonista della scena anni Sessanta. La trilogia con Joe Dallessandro: «Flesh», «Trash», «Heat», la comicità, il senso del burlesco contro la morale
Cinema Addio all’artista americano «consulente spirituale» di Warhol, protagonista della scena anni Sessanta. La trilogia con Joe Dallessandro: «Flesh», «Trash», «Heat», la comicità, il senso del burlesco contro la morale
Si è sempre vociferato sul fatto che Paul Morrissey in realtà sia il vero autore dei film di Andy Warhol. Ora, non c’è dubbio che il grande artista americano è la mente degli oltre 70 film realizzati tra il 1963 e il 1969, ma è altrettanto sicuro che ad essere il braccio operativo («consigliere spirituale» lo chiamano Aprà e Ungari), sia stato questo filmmaker newyorkese che comincia a ruotare intorno alla Factory nel 1965 e che, dopo un inizio carriera davvero underground, raggiunge la notorietà internazionale tra il 1968 e il 1972, firmando tre lungometraggi che sono rimasti nella storia del cinema: Flesh, Trash e Heat. Una trilogia prodotta dallo stesso Warhol che, nel frattempo, si era stufato di fare cinema ed era ritornato a fare l’artista a tempo pieno. Ma soprattutto una trilogia che dimostra come si possa fondere narrazione e cinema-verità, senza distaccarsi troppo da quel mood underground che aveva caratterizzato il cinema warholiano-morrisseyano degli anni precedenti.
NATO nel 1938, Morrissey – proveniente da una famiglia cattolica di origini irlandesi – si era laureato alla Fordham University, l’ateneo gesuita nel quartiere del Bronx. Durante i suoi studi aveva sviluppato un profondo interesse per il cinema frequentando il MoMA. Immediatamente dopo essersi laureato, Morrissey si trasferì nel Lower East Side vivendo in un piccolo negozio che aveva trasformato in una sala cinematografica.
I suoi primi cortometraggi muti in 16millimetri in forma di commedia, come Ancient History, Peaches and Cream, Taylor Mead Dances o Like Sleep, risalgono alla prima metà degli anni Sessanta mentre il passaggio al lungometraggio avviene nel 1964 con Sleep Walk. Ma è l’anno seguente che – grazie a Gerard Malanga – avviene l’incontro con quello che sarebbe stato il suo amico e mentore e che cambierà la sua carriera. Da quel momento, Morrissey sostanzialmente aiuta Warhol nella sua attività di cineasta, con un ruolo che è ancora tutto da chiarire. Tra i film dove il suo apporto è fondamentale vi sono lungometraggi significativi come My Hustler, Chelsea Girls, Lonesome Cowboys e I, a Man.
MA È APPUNTO con la trilogia che Morrissey trova una sua cifra espressiva personale, mettendo in scena, con una certa padronanza di stile, tre personaggi dal nome Joe (interpretati da Joe Dallessandro, già volto della Factory ma qui lanciato definitivamente) che incarnano il dropout dell’immaginario urbano statunitense: il tossico-prostituto che cerca di sopravvivere tra Manhattan e Hollywood con piccoli espedienti e in mezzo ad altre figure di contorno, raccontate spesso con l’uso del piano-sequenza che ci restituisce al massimo il realismo di questi corpi mercificati.
Philippe Azoury sui «Cahiers du cinéma» non ha torto a dire: «C’è in Morrissey un ideale di sequenza, di sketch, di comicità che lo allontana da Warhol e preannuncia John Waters. Il suo senso del burlesco spazza via la morale. E il suo isterismo non appartiene agli anni Sessanta che erano elettrici. Ciò che viene rappresentato in questo teatro di sballo, è una versione originaria di una vita violenta e frustrata come si vede oggi al cinema, alla televisione, per strada».
Un approccio ancora più evidente in Women in Revolt (1971), satira del movimento femminista interpretato unicamente da travestiti, dove tuttavia l’influenza warholiana (che comunque è presente produttivamente nel film) resta determinante.
Non c’era un movimento, i miei film erano miei e basta! Li definiscono indipendenti, certo li ho fatti indipendentemente da chiunque sul pianeta (Paul Morrissey)
Sulla scia del successo ottenuto, Carlo Ponti gli produce i due lungometraggi Flesh for Frankestein (Il mostro è in tavola…Barone Frankenstein) e Blood for Dracula (Dracula cerca sangue di vergine e…morì di sete!!), rilettura (in chiave parodistica) di due classici del genere, dove mescola horror, comico, splatter, eros e underground. L’operazione commerciale è piuttosto evidente e i risultati piuttosto alterni, anche se dietro la sgangheratezza di queste due pellicole, in cui l’ironia neutralizza la paura, traspare una certa originalità e Morrissey, ormai sempre più lontano dal cinema sperimentale, si lascia andare sempre più agli eccessi visivi. Il realismo lascia così il posto a una rivisitazione del genere fantastico, ma al centro vi è, comunque, una riflessione sui corpi, anche quelli degli attori, che Morrissey si diverte a mescolare in modo un po’ folle; così Vittorio De Sica convive con Roman Polanski, Udo Kier con Dallessandro, il tutto in un’operazione che oscilla tra underground e b movie.
Negli anni ’80 Morrissey ha girato film molto diversi tra loro, come Madame Wang’s (1981), Forty-Deuce (1983), Mixed Blood/Cocaine (1984), Beethoven’s Nephew (Il nipote di Beethoven, 1985) e Spike of Bensonhurst (Mafia Kid, 1988), ma senza lasciare davvero un segno. Forse il suo problema è stato quello di non essersi mai scrollato di dosso il nome di Warhol e del suo immaginario, oppure di non essere mai riuscito a trovare una sua dimensione filmica «forte», uno stile coerente e convincente. Il mio ricordo personale di questo strano cineasta risale a un’edizione pesarese in cui era ospite – lo intervistai, ma la conversazione rimase inedita e, probabilmente, è andata persa durante i vari traslochi – seppure il suo nome non attirò l’interesse degli studiosi e dei giornalisti presenti. Come se ormai appartenesse a un’epoca ormai lontana e archiviata per sempre. Stessa sensazione – dolorosa – provata sempre a Pesaro in quel periodo, per un anziano e solitario Pierre Clementi.
NEGLI ULTIMI 35 anni Morrissey ha girato un cortometraggio, un paio di lungometraggi – tra cui News From Nowhere (2010) presentato alla mostra di Venezia – e un solo documentario: Veruschka – (m)ein inszenierter Körper, sulla modella e attrice tedesca che continua ancora oggi a rappresentare un’icona degli anni ’60. La sua scomparsa è forse l’occasione per riscoprire il suo cinema e per ritirare fuori quei primi e introvabili cortometraggi che potrebbero restituirci un’immagine un po’ diversa dal colorato, provocatorio e bizzarro cineasta che siamo abituati a conoscere.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento