«Guarda l’Atlantico che si gonfia e ribolle / ascolta la solitaria campana della chiesa / che Dio protegga le loro anime e abbia cura di loro»: comincia così una vecchia ballata irlandese che parla di pescatori perduti tra le onde nel mare delle isole Aran, sulla costa occidentale. Partivano in piccole imbarcazioni dette curragh, e leggenda vuole che su una di quelle ci fosse anche l’abate San Brendan, padre del monachesimo irlandese, per poi approdare, molti secoli prima di Colombo, in terra d’America. Di narrazioni di mare è piena la letteratura irlandese: per mare, spesso, ci si perde, e altrettanto spesso da lì arriva il pericolo: nel Dracula del dublinese Bram Stoker, per esempio, il corpo del conte giunge in una bara su un vascello che era approdato a Whitby, nel Nord dell’Inghilterra.

Di mare si occupa anche l’ultimo libro di uno tra i più interessanti scrittori irlandesi di oggi, Paul Lynch, il cui titolo originale, Beyond the Sea, diviene in italiano Oltremare (traduzione di Riccardo Duranti, 66thand2nd, pp. 160, € 15,00), dove si racconta la storia di due pescatori in un villaggio senza nome del Sud America: uno adulto, Bolivar, consumato lupo di mare che nonostante presagi di tempesta esce in barca a pescare, e il giovane, inesperto e timido Hector.

Presto la natura ha il sopravvento sulla loro impresa e i due, dai temperamenti e dalle storie opposte, si ritrovano soli sotto al sole, a largo nel Pacifico. Bolivar, uno che vive di istinto e agisce di pancia, ha vicende oscure alle spalle, una compagna e una figlia abbandonate, tanti amori improvvisati; Hector è insicuro e timorato di Dio, ha una fidanzata che non gli si è mai concessa, e che teme possa tradirlo con altri uomini.

La solitudine oceanica e la necessità di sopravvivere costringono Bolivar e Hector a convivere e a parlarsi: le loro confessioni costituiscono gran parte del libro, sono ammissioni intime e dolorose che all’inizio li avvicinano ma presto alimenteranno attriti fatali: «Si rannicchiano abbracciati nella ghiacciaia nel tentativo di tenersi caldi. Hector rifiuta di parlare. Implora Dio con mormorii urgenti… Bolivar lo prende a gomitate, bofonchia maledizioni sottovoce».

Il tentativo di non lasciare campo aperto alla disperazione sembra richiedere il ritorno a un atavismo di tipo animale, che non fa mancare momenti crudi – per esempio quando Bolivar solleva dall’acqua una grossa tartaruga verde e «si mette al lavoro con il coltello» – che si direbbero orrendi se decontestualizzati da quella che è una forzata sopravvivenza.

Tra gli irlandesi contemporanei, Lynch è lo scrittore che forse più possiede il dono di una strana evocatività letteraria; sequenze di parole come «grotte di luce morente in cielo», o quelle riferite a canzoni «che si cantano per le ossa dei morti» o a un’isola che da lontano appare come «un sussurro verde» fanno pensare non tanto a esercizi retorici quanto a una pesca nell’ancestrale, nell’unione sacrale tra corpo e anima, tra corpo e natura.

Qui, in Oltremare, racconta di espiazioni mancate. Se nella Ballata del vecchio marinaio di Coleridge a fermare il tempo era il peccato di aver sacrificato un innocente albatros, nel romanzo di Lynch la violenza diviene una cruda necessità: «Un uccello atterra con uno stridio proprio accanto a lui… Bolivar si siede un attimo e arrotola lo spago mentre l’uccello gli assale la mano a colpi di becco… Si lecca il sangue dalla pelle. Dice: Senti, mi spiace, ma che t’aspettavi? … O tu o io».

Il  refrain che si ripete nel romanzo è: «sono solo un pescatore», ritornello apparentemente minimalistico, ma che rimanda, tramite queste povere, caustiche parole alla antica metafora del vivere come un viaggiare per lidi mai prima sondati: innocenti, puri, sognati.

Anche la grafica, sul finire del libro,  si accorda a un principio di dissoluzione, e i paragrafi si distanziano, gli spazi si estendono, i vuoti si espandono. La solitudine diviene quella di un Robinson, i toni quelli degli ammutinati di Conrad. Undici mesi in mare portano allucinazioni, cecità; ma come scrive il grande antenato irlandese di Lynch, James Joyce, a volte chiudendo gli occhi si vede al meglio. Accade anche ai personaggi di Oltremare, che col passare del tempo acuiscono la visione di se stessi e degli altri, nel passato e nei possibili futuri, a volte amaramente sarcastici, come quando Bolivar racconta a Hector delle presunte carezze che la sua fidanzata starebbe ricevendo da un altro uomo; o quando Hector gli rinfaccia di aver sempre abusato della parola libertà, lui che ha vissuto per tutta la vita di sole sensazioni. Solo dalla morte – sembra suggerire Lynch – può venire quella libertà che contempla il lasciarsi alle spalle gli inganni della corporeità.