Alias Domenica

Paul Lynch, incubi del nostro tempo

Paul Lynch, incubi del nostro tempoSonia Shiel, «Blinds Fall», 2015

Interviste letterarie Prima di approdare al Salone internazionale del libro di Torino, lo scrittore irlandese parla del romanzo con cui ha vinto l'ultimo Booker Prize, «Il canto del profeta», edito da 66thand2nd

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 21 aprile 2024

Anche i premi letterari, almeno quelli meno screditati come il Booker, o il Goncourt, o il Cervantes, sembrano spesso avere bisogno di una qualche ruminazione, che consenta ai giurati di assimilare e fare proprio il soddisfatto borbottìo di fondo che un talento ha scatenato, perlopiù conferendo l’etichetta di autenticità a un titolo arrivato dieci anni dopo quello che l’avrebbe meritata: Il canto del profeta dell’irlandese Paul Lynch, che ha vinto la scorsa edizione del Booker Prize, è un emblematico esempio di tardivo riconoscimento, avendo nel frattempo l’autore goduto della lunga scia di ammirazione seguita all’esordio, Cielo rosso al mattino (entrambi i romanzi tradotti per 66thand2nd, l’uno nel 2013 da Riccado Michelucci, l’altro – appena uscito – da Riccardo Duranti, pp. 276, € 18,00) e confermata dai titoli seguenti.

Un qualche spirito del tempo, si spera niente affatto profetico, deve essersi impossessato della penna di Lynch per dettargli le coordinate dello slittamento precipitoso di una nazione in un dispotico regime a vocazione totalitaria, che scende cupo come una nuvola di carbone a avvolgere una non meglio specificata città. Qui, la famiglia Stack – composta dalla biologa Eilish, il vecchio e saggio padre di lei Simon, il marito Larry, sindacalista immediatamente sequestrato dal subentrato sistema politico, e i quattro figli – fa da cavia letteraria alla sperimentazione delle progressive restrizioni delle libertà, che riguarderanno tutti i cittadini.

Dal primo titolo all’ultimo, la sopraffazione privata e quella pubblica tornano tra le pagine di Lynch a marcare la distanza tra giustizia e sopruso, celesti ideali e terragne miserie; ma qui l’accelerazione della trama è persino parossistica nel segnare le tappe della presa del potere da parte di un partito, che spaccia l’abolizione di ogni garanzia civile per necessaria emergenza, a fronte di una millantata minaccia esterna.
Già visto, già detto, già letto, e perciò tanto più difficile da aggiornare letterariamente: per esempio, mutuando vecchi escamotage narrativi, come quello raramente praticato di inglobare i dialoghi nella narrazione, senza stacchi, a incalzare la prosa impedendo alla tensione di chi parla, e all’ansia di chi legge, di prendere fiato. Paul Lynch sta preparandosi a partire per il Salone del libro di Torino, ennesima tappa della sua recente marcia trionfale, nella quale si ritaglia un po’ di tempo per rispondere a queste domande, via zoom.

Il titolo del suo romanzo compare in un passaggio molto lungo, volutamente cantilenante, privo di punteggiatura, che riguarda «la furia di una divinità incarnata nella bocca del profeta». Da dove viene questa materia che suona come archetipica, sprofondata nel «da sempre»…
Per me quella sequenza è il cuore pulsante del libro, il momento in cui Eilish si rende conto del fatto che l’idea con cui siamo cresciuti nell’Occidente cristiano non ha nulla di buono. Fa parte della nostra eredità biblica la credenza per cui il nostro mondo sarà soggetto a qualche cataclisma improvviso, a una apocalisse che ci travolgerà. Funziona come un mito, qualcosa di remoto che riguarda altri da noi; ma nel libro bussa alla tua porta. Il mondo che era stato il tuo finisce: per te, per la tua famiglia, per la tua comunità; mentre per gli altri che non ne sono direttamente riguardati è un evento trasmesso dal telegiornale. Credo che, in qualche modo, questa idea ci colleghi a una realtà con cui, nell’era dello spettacolo, abbiamo perso il contatto: siamo cresciuti guardando immagini di guerre, di espropri della propria terra, di distruzione, ma tutto ciò resta per noi solo uno spettacolo dal quale rimaniamo scollegati. Quello che sta accadendo a Gaza, per i Palestinesi è la fine del mondo, una apocalisse, per noi sono immagini che scorrono sullo schermo. Con questo cosa voglio dire? Che con un romanzo mi illudo di cambiare il mondo? Niente affatto, ho solo paura. Auden disse che la poesia non cambia la realtà e penso avesse ragione. Il canto del profeta è il lamento di un grande dolore: per ciò che l’essere umano è, sempre è stato e sarà, un animale al tempo stesso terribile e fantasioso.

La linea temporale del libro sembra muoversi su un registro molto credibile quando descrive il comportamento della famiglia Stack, mentre accelera in modo irrealistico quando segue il precipitare dei fatti dopo la presa della città da parte del regime, che porta in un battibaleno alla guerriglia civile.

Pochi hanno notato questo gioco di prestigio in cui mi avvalgo del doppio tempo shakespeariano; ma è vero: la trama, che riguarda gli eventi descritti, sottostà a una accelerazione del ritmo, e allo stesso tempo, ciò che accade sul palco avviene in tempo reale. Dal mio punto di vista, questo è un romanzo profondamente realistico, in cui ogni frase è del tutto calata nella sua contingenza: sonda l’adesso, cerca di occupare quelli che Virginia Woolf chiamava i momenti dell’essere. Ci sono molti passaggi in cui Eilish è trasportata dalla pervasività del qui e ora: perciò le frasi si fanno molto lunghe, ci sono virgole ma nessun punto fermo, per dare l’effetto di una fluidità dell’accadere, senza che la mano dell’autore si intrometta nella costruzione del tempo.

Com’è arrivato a prefigurare questo incubo?
Ogni libro ti detta le sue condizioni, ha le sue richieste, e uno dei trucchi dello scrittore consiste nel prestare una esplicita attenzione a queste esigenze. Dunque, l’atmosfera del romanzo sembrava fosse già lì quando ho iniziato a scrivere, ma poi si è rivelata l’approdo di un lungo viaggio. Mi rigiravo le frasi iniziali, ma non riuscivo a partire per farne una storia. Mi sono accorto che battevo alla porta del libro sbagliato: per giunta, sapendolo. Ma dovevo continuare a presentarmi al lavoro, per il gusto di avere qualcosa da fare. Finché ho messo da parte Il canto del profeta e ho cominciato a scrivere Oltremare, un romanzo per il quale l’ispirazione mi è arrivata come un fulmine. Ho visto l’intero intreccio in un’unica immagine. È questo, del resto, il mio modo di lavorare: tendo a basarmi su visioni, sogni e raffigurazioni mentali che chiedono di essere spacchettate prima e raccontate poi. Finito questo libro, sono tornato all’altro, e finalmente è arrivato un venerdì in cui mi sono detto, basta, mi fermerò per il fine settimana. Il lunedì ho creato un nuovo documento, ho aspettato, ho chiuso gli occhi e ho iniziato a scrivere. La tensione, l’atmosfera, la musica, il ritmo, lo stile, la presenza di Eilish nelle frasi iniziali, tutto era lì senza che lo avessi pensato prima, come fosse il prodotto del subconscio.

Gli scrittori razionalizzano sempre a posteriori, ma spesso ciò che accade tra la penna e la pagina è misterioso. È come se si stesse divinando qualcosa che era già dentro di sé. Non credo affatto che la creatività venga dall’esterno, ha a che fare – per me – con una rete nascosta nel cervello. La magia arriva e tu ne prendi possesso, a quel punto devi solo dirigerla. Ingmar Bergman ha detto una frase famosa, a questo proposito, che a me sembra particolarmente azzeccata: l’intuizione è una lancia gettata nell’oscurità. Poi devi inviare un esercito in quel buio per trovare la lancia: e questo è l’intelletto.

Passiamo ai personaggi: l’unico vecchio è Simon – il padre di Eilish – quello che a me è sembrato il più vivo: si muove fra una incipiente demenza e momenti di acutezza percettiva che rendono i suoi dialoghi con la figlia particolarmente riusciti…
Anch’io, in effetti, trovo Simon affascinante, sia in quanto personaggio in sé, sia in quanto portatore di risonanze allusive a un mondo che tutti noi abbiamo conosciuto: quello successivo alla seconda guerra mondiale, il mondo delle democrazie liberali, della fede nella razionalità del progresso, dei tentativi di conoscenza certa del reale. Il declino di Simon verso la demenza comporta la perdita della memoria di quel mondo, e purtroppo quel mondo sta scomparendo, fagocitato dal regime che si è impossessato della città. C’è un passaggio molto importante per il romanzo, in cui Simon spiega alla figlia come la realtà dei fatti possa venire annullata dall’imposizione di un determinato senso comune da parte del discorso politico dominante: «apparteniamo a una tradizione – dice – ma la tradizione non è altro che ciò su cui tutti concordano… se si riesce a cambiare la proprietà delle istituzioni, allora si riesce a cambiare anche la proprietà dei fatti, si può alterare la struttura dell’opinione, di quello che si stabilisce di credere tutti, ed è esattamente quello che stanno facendo».

Bailey trova un’espressione – «il verme si contorce» – per significare il nodo, il malessere che la madre ha dovuto ingoiare, dopo che il regime le ha portato via il marito. Da dove le viene questa frase?
Viene da una vecchia espressione inglese che si usava per dire che una situazione data potrebbe improvvisamente cambiare, o è già repentinamente mutata. Non credo che Bailey ne capisca il significato. Confonde ciò che gli appare intorno con un suo sogno, ed è interessante per me il fatto che cerchi, così, di avvicinarsi alla comprensione di qualcosa che sarebbe altrimenti inconcepibile per lui: il mondo conosciuto sta scivolando verso qualcosa di ignoto, la realtà si sta destrutturando, anche grazie al fatto che la madre gli ha mentito sulle ragioni della scomparsa del padre. Dire una bugia a un bambino di quella età è molto pericoloso. Eilish fa un errore di valutazione e questo allontanerà da lei il figlio, innescando una dinamica nel loro rapporto, che andrà avanti per tutto il libro.

In breve la città è occupata dall’esercito, ci sono sparatorie con i ribelli, Eilish attraversa continui posti di blocco. E a un certo punto le immagini reali si confondono con quelle fantasticate: per esempio non si capisce se Bailey, subito dopo essere stato ferito, sia vivo o morto. Voleva suggerire uno stato di indeterminazione?
Parlare esplicitamente, già a questo punto della trama, della morte della Bailey avrebbe comportato anticipare qualcosa di molto significativo. Detto questo, davvero l’indeterminatezza gioca un ruolo prioritario nell’atmosfera del romanzo, e mi ha sempre stupito il fatto che nessuno mi avesse mai chiesto di parlarne. Non ricordo chi abbia detto che la realtà è la misura non di ciò che si sa, ma di ciò che non si può sapere, di tutto quanto si deve tralasciare, perché insormontabile. Il romanzo è scritto in una terza persona mai onnisciente, cui sfugge una realtà che qui è come se cominciasse a slegarsi. La stessa Eilish si sente parte di un sogno che si disfa, e diventa un incubo. Tutto il romanzo è saturo di finali aperti: non sappiamo cosa sia successo a Larry, né a Mark, il figlio maggiore che si è unito ai ribelli, né sapremo che fine farà Eilish. Non lo sappiamo, dannazione, e questo, per me, è il vero metro di misura del realismo.

Qual è stata la pagina più difficile da scrivere…
Quella che riguarda la fine di Bailey, ammazzato dal regime, e il riconoscimento del suo cadavere all’obitorio, da parte di Eilish . È un capitolo che mi ha causato un enorme dolore: non sapevo come scriverlo. Si trattava di prendermi la responsabilità di portare il lettore nel più profondo cerchio dell’inferno e trasmettergli qualcosa di terrificante, ma anche di profondamente veritiero. Dovevo farlo con un po’ di poesia e di grazia, e così … ho passato tre mesi completamente bloccato. Avevo paura di scrivere quelle pagine, non sapevo nemmeno se avrei dovuto farlo; ma poi ho pensato che se avessi distolto lo sguardo, o se avessi consentito al lettore di girarsi dall’altra parte, allora la verità del romanzo sarebbe venuta meno. Ancora una volta, è successo che un sogno mi ha mostrato come scrivere quella scena, suggerendomi il meccanismo che avrebbe dato inizio al capitolo. Finalmente sapevo come procedere. Ne derivai un saggio… ma non ho intenzione di svelare tutti i miei segreti: qualcuno sì, ma non tutti. Che gli scrittori lo ammettano o meno, la narrativa poggia sempre su un congegno. C’è una sorta di orologio svizzero all’interno del testo cui bisogna prestare molta attenzione. Sono un costruttore di orologi tanto quanto un costruttore di sogni, il trucco è coordinarli per renderli funzionanti tra loro.

Diversamente da quanto è stato detto, il suo romanzo non è propriamente distopico, perché non immagina alcun futuro, si svolge nel presente, e si discosta anche molto dai predecessori che le sono stati trovati, da Orwell a Huxley. Le pare?
In effetti, la sensazione che intendevo dare è che il libro si svolga in un tempo non specificamente delineato: potrebbe essere un presente controfattuale, e anche un ipotetico futuro. Direi piuttosto che ha un suo spazio proprio e, come ogni romanzo, ha le sue leggi specifiche.

All’uscita del libro, la critica ha notato l’eco di Saramago nella sua scelta di incorporare i dialoghi nella narrazione. Ma c’è di più: in un passaggio del romanzo, lei scrive che gli occhi di Eilish e poi la bocca si muovono autonomamente dagli impulsi cerebrali. E qui il debito con lo scrittore portoghese si rafforza ancora. Non trovo giustificati, invece, i paragoni con Cormac McCarthy. Lei cosa ne pensa?
Quando ho cominciato a scrivere, questi autori non erano nei miei pensieri. Il romanzo è il frutto di un atto intuitivo, e lo stile che ho cercato doveva soddisfarlo e assecondare il divenire del testo. Procedevo verso l’ignoto. Se scrittori come McCarthy e Saramago mi erano in qualche misura presenti, lo erano in quanto ideali verso cui tendere, perché sono, ognuno a suo modo, dei metafisici. Quanto al fatto di non iscrivere i dialoghi nelle virgolette, l’ho fatto fin dai miei esordi. Penso sia importante, per uno scrittore serio, attingere a tutto quanto offre il passato: si dovrebbero sentire, in un testo, echi di tutti i diversi periodi della letteratura che vi confluiscono, perché ogni opera è il sedimento di varie epoche. Mi sento al tempo stesso un romanziere romantico, un elisabettiano, un modernista e un post- postmoderno, qualunque cosa significhi. Ma soprattutto, buona parte del mio progetto letterario è consistito nel cercare di aggiornare la tragedia greca, di ridarle vita, di offrire una visione tragica del mondo in una veste che la faccia apparire del tutto moderna. Quanto alla critica, due recenti recensioni dei miei ultimi due romanzi, apparse sul «New York Times», hanno esordito dicendo che la mia scrittura è priva di umorismo, priva di battute, il che mi è sembrato davvero strano: sarebbe come andare da un comico e dirgli che nelle sue pièces non c’è nulla di tragico.

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