Anni fa, in un museo archeologico del Nordest, il visitatore curioso di notizie su un certo ritratto antico trovava schede come questa: «Scuola nesiotico-microasiatica. Indirizzo tettonico-plastico». Per capire quei termini occorreva almeno una laurea in archeologia classica, con adeguato studio del greco: ci si richiamava infatti a serissimi studi sul ritratto greco. Proposta in un museo destinato al pubblico e non in un libro accademico, quella scritta risultava una forma dell’antilingua evocata da Italo Calvino. Eppure quella dotta descrizione, oggi sostituita, evoca un tema importante: il rapporto tra patrimonio culturale e pubblico.

CHI LA PREDISPOSE, apparteneva al tempo nel quale garanti della cultura erano i dotti, gli accademici. Dopo l’Unità, la gestione del patrimonio artistico e archeologico italiano passò infatti, in gran parte, dalla saltuaria cura di eruditi, religiosi e nobili alla gestione e fruizione pubblica, sorvegliata da leggi severe di conservazione e scientificamente certificata. L’effetto di quella svolta fu importante, e portò a fasi diverse, non tutte commendevoli. Le ambiziose mete di tutela, combinate con una normazione presto ipertrofica, portò nel tempo anche a criticità ben note, complice anche certa qual lentezza del settore: siti trasandati, musei derelitti, orari infelici, chiusure improvvise, restauri infiniti. Poi venne la svolta, con la trasformazione del turismo contemporaneo in «industria» e della cultura in materiale estraibile dai «giacimenti» (© Gianni De Michelis, anni ’80): un tentativo che disarticolando le passate gestioni, cercò di aprire una via diversa, oggi percorsa di gran lena, seppure con destinazione ignota.

NE ILLUSTRA con aperto favore gli esiti un agile libro di Marco Frittella, che mostra nel titolo (L’oro d’Italia), e ribadisce nel sottotitolo, di voler presentare un percorso magnifico e progressivo, che appunto linearmente conduce Dall’abbandono alla rinascita (Railibri, pp. 252, euro 18.50). Illustrando casi piuttosto celebri (Pompei, Caserta, Tivoli, Agrigento, Napoli, eccetera), si denunciano gli esiti di male gestioni precedenti, cui è seguito un provvido recupero, che ha restituito alla collettività siti ora visitatissimi, quindi profittevoli. Il Viaggio nell’Italia che riscopre i suoi tesori (e la sua anima) celebra le eccellenze del restauro e ancor più le menti capaci di gestire il patrimonio: e massimo merito è attribuito, con entusiasmo, alle direttive politiche e al rinnovamento imposto, non senza contrasti, dall’attuale ministro. Per altro, si apprende dal sito ministeriale, «la durata del suo incarico lo rende il ministro della Cultura più longevo della storia della Repubblica italiana». Inoltre, Frittella parla di «riforme fondamentali» che hanno portato un «vento nuovo», dissipando il passato «torpore burocratico» che aveva paralizzato l’amministrazione della cultura in Italia entro una «inacidita autoreferenzialità prefettizia».

PAROLE NON LIEVI, come si nota. Senza dubbio, il mondo «delle soprintendenze» aveva bisogno di ripensamento, anche perché la contemporanea «democratizzazione della cultura» impone ormai una nuove agenda agli operatori dei beni culturali, a ogni livello. Meno felice è la contrapposizione tra la passata «tutela» e la presente «valorizzazione» di quei medesimi beni. Scelta non innocente, perché sottintende che la prima fosse concepita in modo da emarginare o rendere impossibile la seconda, e che invece la seconda naturalmente ora comprenda la prima, anzi la potenzi. Le parole, si sa, sono importanti. Contro il nuovo corso, contro la riorganizzazione delle competenze, contro l’autonomia di alcuni musei, ci furono e ci sono polemiche, in parte mal condotte: «valorizzazione» non equivale infatti a «mercificazione». Anche «Sonderbehandlung» non significa «Liquidierung», ma potrebbe implicarla, celandola: su questo, nella questione dei musei, è mancata chiarezza. Chiunque abbia messo piede alla Venaria reale o all’Egizio comprende che si son fatte scelte buone: ma dello stesso moto di rinascita fa parte la spinta che porta diffusamente a privilegiare il momento avventizio della mostra, o l’accoglienza a eventi privati (come in vari casi fiorentini e non solo) rispetto alla stabilità protettiva del museo.

SE L’EFFIMERO sarà definitivamente elevato a sistema, e la precedente idea di tutela verrà derubricata a «zavorra ideologica» e «preconcetto», se ne dovranno trarre le conseguenze. Giacché ne risultano travolti non solo i modi di organizzare siti o musei, ma anche, e soprattutto, i criteri per formare e scegliere gli incaricati, a iniziare dai dirigenti. A quanto appare, il sistema non ha bisogno dello studioso erudito, né basta il dirigente attento alla normativa: si richiede il manager dei beni culturali, capace di ideare attività che attirino pubblico, e di trovare i soldi che le paghino.

CIÒ CONTA ben più che il saper datare un coccio o individuare l’iconografia di un quadro minore, se il patrimonio culturale deve essere orientato al pubblico e non più restare nelle mani degli specialisti. Non è una catastrofe: è una svolta, anzi una scelta. Ma in Italia le scelte vengono raramente presentate come tali, bensì come reazioni, emergenze, rimedi, palingenesi, senza dunque palesare la visione sottesa, coperta dalla sonora condanna delle inerzie e dei colpevoli abbandoni precedenti… Verso il futuro guardano infatti le interviste che chiudono il libro; parlano il ministro, un noto archeologo, il presidente del Fai e il direttore di uno dei musei resi autonomi dalla riforma.
Il quadro è positivo, le criticità minimizzate. Ma emergono spunti di grande interesse: per esempio, si spiega che il patrimonio culturale ha un valore «dinamico», non dato un volta per tutte ma soggetto a cambiare nel corso del tempo. Nell’epoca della cancel culture, dell’emarginazione degli specialisti a favore della visione «olistica», al tempo del primato della redditività e degli «eventi», questa tendenza appare preoccupante: essa consentirebbe (consentirà) di rimuovere, coprire, vendere, quanto venga fatto risultare «dinamicamente» privo di valore (edifici, cocci, libri). L’importante, ormai, è annunziare e prenotare (e incassare): sia lecito a chi scrive, nato in un altro mondo, sotto il governo Fanfani III, non comprendere questo nuovo volto della cultura, e di cogliere però l’irreversibilità della trasformazione. Nel libro, apparentemente leggero, vi sono passaggi da leggere con vigile attenzione. Per esempio, si definiscono i musei come «strumenti», non «intangibili» ma «dinamici», in cui «si mettono collettivamente in discussione gli stereotipi culturali su cui si fondano i sistemi educativi e i pregiudizi che limitano la nostra libertà individuali e la nostra eredità». Così il direttore di un importante complesso museale di Parma. Il dado è tratto. Meglio essere preparati.