Alias Domenica

Patrick Radden Keefe, da El Chapo allo chef Bourdain, inchieste con tecnica da fiction

Patrick Radden Keefe, da El Chapo allo chef Bourdain, inchieste con tecnica da fictionL’elegante quartiere Champel a Ginevra, Svizzera

Giornalismo e storytelling Penna del «New Yorker», Keefe ha investigato e confezionato le storie (spesso al limite dell’incredibile) di dodici personalità accomunate dall’essere dei «rogues»: truffatori, assassini, doppiogiochisti, falsari, megalomani... «Ribelli», per Mondadori «Strade blu»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 24 settembre 2023

«I romanzieri erano stati così gentili da lasciare ai nostri ragazzi un bel po’ di materiale: l’intera società americana, in effetti»: a scriverlo era Tom Wolfe, con la solita buona dose di provocazione, in uno dei saggi della raccolta del 1973 che battezzava il New Journalism. I «ragazzi» erano non solo gli autori antologizzati, ma tutti i contributors della giungla di riviste che Wolfe invitava a diventare padroni delle tecniche narrative che «avevano dato al romanzo del realismo sociale una tale potenza». Se fosse poi vero, che i romanzieri avevano abbandonato la realtà, è assai opinabile. Wolfe non amava la letteratura americana dopo Steinbeck, quindi per lui le cose stavano effettivamente così. Ma forse, era vero proprio il contrario: il giornalismo tradizionale si era rivelato non abbastanza attrezzato davanti ai cambiamenti del mondo e dell’America del dopoguerra, e quindi era dovuto andare a bussare alle porte del romanzo. La questione è complessa, e difficilmente porterebbe a un punto fermo, a stabilire a quale delle due forme – la cronaca o la narrativa – spetti la primogenitura nell’ambito della narrazione: l’intreccio è indissolubile sin dagli esordi del romanzo borghese moderno.

Quello che però la prospettiva di Tom Wolfe comprendeva, era la visione di un futuro in cui un ragazzo, frugando nella biblioteca scolastica, si potesse innamorare delle riviste come molti avevano fatto, e avrebbero continuato a fare, di Tolstoj, Dickens, Balzac – o di Crane, Hemingway o Faulkner. È proprio questa l’immagine che domina la prefazione di Ribelli di Patrick Radden Keefe (Mondadori «Strade blu», trad. di Manuela Faimali, pp. 459, € 24,00): un bambino che cresce leggendo il «New Yorker» e arriva – a trent’anni, nel 2006 – a scrivere per la rivista, dopo che una carriera di studi nelle migliori università d’America e del mondo (Columbia, Cambridge, London School of Economics, Yale) lo stava portando lontano dalla sua passione originaria. Sarebbe poi «tornato a casa» felicemente, non solo con il lavoro per il «New Yorker», ma anche con saggi narrativi come Non dire niente (Mondadori 2023, National Book Critics Circle Award), sul terrorismo nordirlandese, o L’impero del dolore (Mondadori ’22), storia della famiglia Sackler, gli industriali del farmaco a cui si deve in larga parte l’epidemia americana di antidolorifici (e al centro anche del documentario All the Beauty and the Bloodshed, Leone d’Oro a Venezia nel 2022).

Sarà forse per la sensazione, maturata in quegli anni, di non essere al proprio posto, che Radden Keefe nella sua carriera di reporter si è spesso concentrato su quelle figure di imbroglioni/sovversivi che sguazzano dentro e fuori da grandi organizzazioni (siano esse economiche, dello show business o criminali) facendole navigare tra il trionfo e la tragedia. Sono i ribelli del titolo, ma più precisamente i rogues dell’originale inglese, che la parola italiana non traduce, anzi in gran parte tradisce. Furfanti, doppiogiochisti, falsari, megalomani: gente dalla doppia vita, su cui spesso è impossibile dare un giudizio definitivo. I dodici ritratti contenuti nel libro, apparsi in origine tra il 2007 e il 2019, vanno da El Chapo Guzmán, boss del cartello messicano di Sinaloa, allo chef/scrittore/personaggio televisivo Anthony Bourdain: in comune, oltre alla doppia natura, hanno in effetti qualcosa di ribellistico, che giustifica almeno un po’ il titolo scelto per l’edizione italiana. Buona parte di loro, ma non tutti, sono criminali, eppure anche in questo caso la loro rivolta è orientata verso qualche incarnazione della triade – sempre di moda – «Dio, patria, famiglia». I legami parentali mostrano in molti pezzi il loro tocco velenoso, di medusa che lascia il segno, ed esemplare in questo senso è l’articolo su Astrid Holleeder, sorella di Wim, uno dei maggiori criminali olandesi degli ultimi quarant’anni, responsabile del rapimento del magnate della birra Freddy Heineken nel 1983.

Dopo aver consigliato il fratello come avvocato, dopo aver subìto allo stesso modo il suo affetto e la sua violenza, Astrid decide di collaborare con la polizia. E pur vivendo una vita da reclusa, ed essendo costretta a travestimenti e accortezze ai limiti della paranoia per evitare la vendetta dei criminali associati al fratello, ancora riesce a dire che «Wim è una parte di me». La patria invece è servita e irrisa, come nel caso di Hervé Falciani, protagonista del capitolo intitolato «Il colpo alla banca Svizzera»: esperto informatico del gruppo HSBC, Falciani compie il più grande furto di dati mai realizzato, violando il tabù principale della Confederazione: la segretezza bancaria. Lui si dipinge come un attivista, come un altro Assange, fugge in Francia e mercanteggia i dati con i magistrati anti-evasione per non essere estradato in patria. Ma sarà davvero un eroe dei nostri tempi o qualcuno che non è riuscito a lucrare su un’operazione azzardata? A Dio infine si è rivolto, a un certo punto della sua vita, Mark Burnett, il produttore televisivo che ha sdoganato i reality show e che, con The Apprentice, ha rifondato il mito di Donald Trump preparandogli – più o meno involontariamente – il trampolino dell’ascesa politica. Ma la conversione tardiva, nella sua parabola, non sembra lontana per natura dall’impulso costante alla creazione di idoli.

Per raccontare queste storie, Radden Keefe si serve degli espedienti dello storytelling contemporaneo, dei podcast e delle serie tv, ma anche di molta narrativa, quelle tecniche codificate attraverso cui – per dirla con Vitaliano Trevisan – «tutto tende a divenire fiction». Ci sono teaser, incidenti scatenanti, traumi e fantasmi che orientano le vite dei personaggi, antagonismi, duelli che si ripresentano nel tempo fino a un culmine. Tutto molto avvincente, ma a volte troppo «pronto» per essere opzionato da qualche casa di produzione cinematografica. L’io dell’autore si affaccia raramente nelle pagine, solo per brevi incursioni, e forse – sebbene, come recita il sottotitolo, il libro parli di «assassini, truffatori e sovversivi» – il brano più perturbante è quello della prefazione in cui Radden Keefe ammette un’esitazione di fronte all’offerta, ricevuta da El Chapo, di diventare ghostwriter della sua autobiografia. La posizione del narratore, non solo da un punto di vista etico, non verrà problematizzata altrove nel resto del libro.

Sarà forse anche questo motivo ad aver spinto inconsciamente Radden Keefe a concludere la raccolta con un articolo su Anthony Bourdain. Che era sì, da un punto di vista superficiale, un cuoco – nemmeno troppo brillante – e il protagonista di una serie di programmi sul cibo nel mondo; ma anche, dalla prospettiva della forma comunicativa, un narratore televisivo in qualche modo rivoluzionario, capace di gettarsi con tutta la sua energia, fisicità e intelligenza davanti alle telecamere, di trasformare un documentario di cucina in un reportage politico e sociale, di filtrare le cose attraverso il suo sguardo – di non essere mai trasparente, insomma. Bourdain diventa così un contraltare del più compassato narratore, qualcuno capace di passare una notte a perdersi in Vespa per Hanoi e poi di cercare una palestra di jujitsu per combattere con degli sconosciuti, e di ricominciare poi un’altra corvée di lavoro, un altro combattimento, in un angolo diverso del mondo.

L’ultima pagina del libro è dominata dall’immagine di Bourdain sul tatami, allacciato al suo avversario, in attesa che questi gli faccia segno di mollare la presa: «nella foga dell’incontro, mormoravano degli sfottò scherzosi; c’era qualcosa di intimo, come fossero confidenze tra amanti». Un torero trionfante sulla belva della realtà, ma anche un monito contro quella stessa «confidenza», contro la tentazione dell’immersione, poiché porta già in sé il germe della sconfitta. Che si fa ancora più dolorosa quando si pensa – come ricorda l’aggiunta in corsivo al fondo dell’articolo – che Bourdain sarebbe morto suicida nel 2018, meno di un anno e mezzo dopo l’uscita del pezzo di Radden Keefe.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento