La scoperta della quarantesima edizione di Bergamo Film Meeting è stata il cinema di Patrice Toye. Una sorpresa assoluta, immergersi nell’immaginario realista e visionario che la cineasta belga, fiamminga, ha costruito dall’inizio degli anni Novanta esprimendo una coerenza estrema nel portare in primo piano storie e personaggi complessi, tormentati, colti in momenti di radicale trasformazione delle proprie esistenze, adulti, adolescenti, bambini collocati in ambienti periferici, ai margini delle città, nel contatto con la natura, con architetture industriali abbandonate o fabbriche nelle quali lavorare pensando a riposizionare altrove il proprio instabile abitare il mondo. Dopo cortometraggi e film per la televisione, Toye (nata a Gand nel 1967) esordisce nel lungometraggio per il cinema nel 1998 con Rosie – Il diavolo nella mente (suo unico film distribuito in Italia), dove con precisione narrativa e libertà formale viene raccontata la relazione tra la tredicenne Rosie e la madre Irene che vivono nella zona industriale di Antwerp.

IL TEMPO convenzionale, in un cinema fatto di impulsi, «lampi», sconfinamenti (pensati o istintivi, mentali o fisici), non esiste, lascia spazio a una moltitudine di fratture spazio-temporali. Rosie è, a tal proposito, un film esemplare, racchiuso per la maggior parte in lunghi flashback, mentre la ragazzina si trova a trascorrere un periodo di recupero in un istituto per minori. Ha un atteggiamento punk (che è pure un’attitudine ricorrente nei lavori della regista) e nel suo corpo, così come in quello della giovane madre, e nelle energie visive, musicali, fisiche (altra traccia presente in tutta l’opera di Toye) non si possono non percepire certi sbandamenti emozionali e sovversivi del cinema di quel periodo di Olivier Assayas (e chissà se una cineasta immensa come Andrea Arnold ha visto i film di Toye nell’elaborare a sua volta personaggi sradicati e in costante lotta con se stessi, con chi, con quanto li circonda). Nel suo cinema, Toye evita trappole retoriche e semplificazioni psicologiche, lavorando invece sulle sfumature, le ambiguità, le interpretazioni aperte. Muidhond (Tinca, 2019), il suo film più recente, descrive il tormento di Jonathan, giovane accusato di pedofilia, che, uscito dal carcere in assenza di prove, torna a vivere dalla madre in una zona portuale e povera, e a combattere l’ossessione che lo brucia quando una bambina, vicina di casa, inizia a frequentarlo. Saprà resistere, Jonathan, alla tentazione, al baratro sul quale, come un personaggio uscito da un film di Paul Schrader o Abel Ferrara, è sospeso – e non casualmente più volte compie un esercizio appendendosi con le mani a una sbarra sul balcone, resistendo per non cadere, in una posizione cristologica? Tra questi due capolavori, Patrice Toye ha firmato altri film, altri corpi, altri volti, altre relazioni, ogni volta componendo immagini «a distanza ravvicinata», inquadrature e scene piene e luminose disegnate da una camera a mano sensuale e mai morbosa (direttore della fotografia di tutti i suoi film è il marito Richard van Oosterhout).

SI PENSI a Gezocht: Man (Ricercato: Uomo, 2005), titolo emblematico del cinema delle epifanie di Toye, dove un bambino e una madre condividono un’intimità in assenza di uomini. Il bambino inventerà un modo tutto suo per far fronte a questa mancanza in un film che alterna con fluidità l’oggettività dell’immagine nitida alla soggettività di quella sgranata che mette in risalto i pensieri e le fantasie dei protagonisti. Sono film di apnea nel reale e di fughe, temporanee – è il caso di (N)iemand (L’uomo del nulla, 2008) – o definitive – come accade in Little Black Spiders, 2012. Toye sceglie sempre il punto di vista dei personaggi. Se si trattasse di romanzi, sarebbero raccontati in un appassionato flusso diegetico in prima persona.