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Patrice Leconte, nuovo, classico Maigret

Patrice Leconte, nuovo, classico Maigret

Intervista Nei panni di Gérard Depardieu torna al cinema il commissario di Simenon, cui il regista francese ha portato il suo tocco da «cadreur»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 10 settembre 2022

Cineasta, naturalmente. Ma anche vignettista, romanziere, regista teatrale, attore. E lui aggiunge: «Pattinatore artistico, nuotatore sincronico… Agli inizi, disegnavo fumetti. Goscinny, lo sceneggiatore di Astérix, li ha visti e per 5 anni ho pubblicato fumetti su Pilote». A Patrice Leconte piace giocare. Meglio, piace rimettersi in gioco. Attività eclettica e febbrile. Una parabola cinematografica iniziata a 14 anni con corti a raffica («il nonno mi prestava la cinepresa, io acquistavo la pellicola con la paghetta»). L’autore di successi come Il marito della parrucchiera e La ragazza sul ponte o, adesso, Maigret, si è dato sempre nuove sfide, alternando al box-office picchi e catastrofi.

Tra queste, nel 2012, la sua prima volta, gustosissima (dopo trent’anni di film dal vero), nell’animazione, La bottega dei suicidi (che in Italia aveva sfiorato l’assurdo divieto ai minori): «Mi piace realizzare tanti film diversi: altrimenti, mi annoio. Non mi interessa essere un gran cineasta, di quelli che ricreano sempre lo stesso film, preferisco essere me stesso, divertirmi». Come, l’anno prima, con l’inatteso, scintillante Voir la mer, con tre stupendi esordienti, mai distribuito in Italia dopo la presentazione al Festival di Taormina di Deborah Young e quasi subito sparito in Francia: «Il mio più grande insuccesso – si dispiace l’autore, 75 anni, scattante nell’appartamento luminoso e ordinatissimo all’ultimo piano d’un palazzo d’epoca zona Montparnasse –. Era il film d’un vecchio ragazzo: leggero, scanzonato. Un film così ‘giovane’, non l’avrei mai potuto realizzare agli esordi».

Poi, nel 2015, distribuito da noi da Filmauro, Tutti pazzi in casa mia, che appartiene invece al reparto incassi sicuri. Subito in vetta al botteghino alle prime proiezioni in Francia, a inizio anno: quasi un bis commerciale della commedia applauditissima oltralpe, Une heure de tranquillité, del giovane Florian Zeller, protagonista Fabrice Luchini, da cui è tratta la pellicola. Una pochade che gira attorno alla degustazione d’un raro lp da parte d’un dentista appassionato di jazz, continuamente interrotto, in quell’ora di beatitudine cult, da ogni tipo di imprevisto: il «ci dobbiamo parlare» della moglie, i ritorni di fiamma dell’amante, l’adunata d’immigrati guidati dal figlio, il fracasso della ristrutturazione, cui s’aggiunge, proprio quel giorno e a quell’ora, l’annuale festa del vicinato.

E, adesso, dopo sei anni di «progetti che non hanno funzionato o che son finiti in nulla», ecco il 31° titolo, un film magnifico, Maigret, con Gérard Depardieu, distribuito il 15 da Adler Entertainment di Milano, che ne aveva previsto l’uscita nel marzo scorso, un mese dopo quella francese. Da anni non si rivedeva un Georges Simenon al cinema, in particolare Maigret: «Jean Gabin, ne ho ancora viva la memoria, ne è stato un interprete formidabile», ricordava, nelle interviste a France Musique e a RFM alla vigilia dell’uscita francese, Patrice Leconte, che a Simenon si era già ispirato per il vitreo M. Hire, presentato nell’89 – anno della morte di Simenon – a Firenze al France Cinéma dl Aldo Tassone, che l’aveva lanciato facendo meglio conoscere Leconte in Italia.

Perché, di nuovo, Simenon? Perché Maigret?

Simenon è una lettura dell’adolescenza. Lo leggeva mia nonna materna e me ne passava i libri. Poi ho continuato per mio conto. Rituffarmi oggi in Maigret non è per rispolverare le serie tv del passato, ma è un modo per riaccendere le mie fantasie d’infanzia. Maigret non è Superman, è un personaggio molto vicino a ciascuno di noi, ricco di umanità, attraversato dalle emozioni quotidiane, anche con tanti inciampi di giornata. Non è il commissario o il poliziotto che tutti vorremmo amare. Maigret è semplicemente un tipo che fa quel che può, sempre più usurato dalla vita.

E perché Depardieu?

È diventato inevitabile quando ho messo a fuoco il personaggio. Anzi via via che scrivevo la sceneggiatura, la sua figura s’è imposta da sola. Avevo l’idea d’un Maigret ideale: e il Maigret ideale era lui. Nel libro, il protagonista ha perso una figlia (e Depardieu ha perso il figlio). Con un enorme piacere Gérard ha interpretato questo personaggio emblematico, strapazzato, come lui, dalla vita. Sempre attento al mondo che lo circonda (l’ho ben osservato sul set), esattamente com’è attento Maigret a dintorni e dettagli. Il perfetto esempio dell’insicurezza. Quanto son noiose le persone immuni da incertezze.

Lei è anche ‘cadreur’ nei suoi film: è riuscito a inquadrarlo per intero?

Io giro in scope – ride Leconte – Gérard vi trova sempre il suo spazio. In più mi ha regalato un complimento in un’intervista: «Patrice sa quel che fa. Riflette e gira. Inquadra con sensibilità: gli attori non hanno niente da aggiungere».

E come mai non ha potuto ‘cadrer’ Luchini in «Tutti pazzi in casa mia»?

Perché il protagonista su grande schermo non è Luchini, ma Christian Clavier, popolare da voi per I visitatori, un paio di Asterix e Non sposate le mie figlie. Sarei stato felice di girare di nuovo con l’attore che ha contributo a miei successi, da Ridicule a Confidenze troppo intime. Ma è interprete versatile, era già in corsa su altri progetti. Clavier, l’avevo saggiato in exploits collettivi: finalmente, l’avrei avuto ‘en solo’, con il piacere degli amici che si ritrovano. È un attore capace di trasmettere simpatia, di addolcire con umanità le catastrofi che si moltiplicano nel film. Per farla breve, il protagonista è un egoista: nell’interpretazione di Clavier diventa simpatico, mentre con Luchini avrebbe rischiato l’antipatia.

In «L’amore che non muore», ha fatto esordire Emir Kusturica, già regista affermato. Come ci è riuscito?

Avevo già Juliette Binoche e Daniel Auteuil: volevo un terzo personaggio, un po’ scorbutico, chiuso, uno d’un Paese dell’Est. Sfogliando un libro di cinema m’è caduto l’occhio su una foto di set di Kusturica. Conoscevo i suoi film: ora vedevo la sua faccia, la faccia giusta. Ha accettato, ma a condizione di esser sottoposto a provini, da solo e con la Binoche. Per lui era la prima volta. Ma, dopo, ci ha preso gusto, con altri registi. Mi ha spiegato perché: «Quello dell’attore cinematografico è mestiere di pigri. Da regista, devo alzarmi presto, occuparmi di tutto, luci, scene, costumi e, anche, degli attori. Da attore, mi rilasso nella mia roulotte o aspetto tranquillo fumando il sigaro». Mi ha confessato che, rendendolo attore, l’ho reso ancora più pigro.

Lei è autore dell’epifania cinematografica di Anna Galiena. Come l’ha scoperta?

Per Il marito della parrucchiera, volevo un’attrice sconosciuta, che fosse un’apparizione inattesa per il pubblico, anche quello di casa sua. Pensavo a una straniera, una spagnola o un’italiana, di grande sensualità: una donna di bellezza superba che apparisse per la prima volta a tutti. Tra le mani mi son capitate sue foto in BN che mi hanno subito colpito. All’appuntamento a Roma, al bar dell’hotel, ero in anticipo, come d’abitudine. Lei è arrivata e ha attraversato la sala. Solo a vederla camminare, mi son detto: è lei. Era dotata d’un fascino naturale, d’una seduzione animale. Come si è seduta, le ho anticipato: lei è la protagonista. Per l’emozione, si è messa a piangere. Credo molto nelle scelte d’istinto, nei coups de coeur. Bisogna avvertirli e farsene guidare.

Altre epifanie in arrivo?

Il film con Alain Delon e una micro-serie. È da 6 anni che si trascino il progetto di La maison vide’, che sarebbe l’ultimo film di Delon. Lui esita. Ha paura: «Il mio ultimo film e poi muoio». Ancora ci spero. La serie è apparentemente qualcosa cui mi sono arreso: non ho mai avuto voglia di girarne, mi piace essere essenziale: in un’ora e 30 di film puoi dire tutto. Simenon in questo è esemplare. Libri di 100 pagine: è un maestro dell’economia delle parole, la sua scrittura asciutta è sorprendente. Io mi inchino ora alla serie, ma in formato mini-serie. Ho anzi inventato la super mini-serie: due puntate, 50’+50’.

In Simenon non è solo questione di righe.

Certo. E in Maigret et la jeune morte, da cui ho tratto il film, il suo genio sfavilla. In tutta la storia, in una Parigi crepuscolare, ci si chiede chi è la diciottenne uccisa più ancora di chi l’ha eliminata. Maigret, un tipo che sa osservare gli altri, conduce la sua indagine sull’identità della vittima invece che sull’omicida. Terribile la morte, specie se a 18 anni. Ed ecco il colpo di genio: un uomo inaridito dalla vita che riprende gusto alla vita grazie a una morta. È qualcosa che mi ha enormemente emozionato.

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