Vado spesso a trovare Luca Patella nella sua casa romana a pochi metri dal traffico della Nomentana in cui vive insieme alla compagna di una vita Rosa Foschi, anche lei artista nonché autrice di alcuni film di animazione tra i ’60 e i ’70. Malgrado sia prossimo agli 88 anni, Luca è ancora molto attivo e pieno di progetti: ogni anno escono diverse pubblicazioni sue e/o sul suo lavoro e le sue opere viaggiano in tutto il mondo esposte in numerose collettive. Artista totale, che ha iniziato con l’incisione, sperimentando poi con la fotografia, il cinema, la performance, l’installazione visivo-sonora, l’ambiente multimediale, l’oggetto (citiamo la famosa serie dei vasi fisiognomici), ma anche il libro (ne ha prodotti oltre 100), Patella è sempre stato un personaggio poco classificabile, lontano dai movimenti delle neo-avanguardie, che pure ha anticipato a suo modo (come l’Arte Povera). Ripensando ai primi anni ’90 – periodo in cui l’ho conosciuto e frequentato nella sua casa di via Panisperna (luogo storico dove si svolsero alcune riunioni della Cooperativa del Cinema Indipendente) – devo dire che il suo habitat non è affatto mutato: prima di giungere nel salone dove mi accoglie avvolto nella sua vestaglia e in compagnia di Rosa, che sovrintende attentamente ogni attività familiare e professionale, bisogna percorrere un lungo corridoio reso ancora più stretto dall’accumulo di opere (spesso imballate), libri sugli scaffali, fotografie alle pareti e altri materiali accatastati per terra.

L’occasione per conversare con Patella è offerta, ancora una volta, dalla necessità di ricostruire alcuni passaggi e sciogliere diversi nodi legati alla stagione dell’underground e all’elaborazione di una ricerca sui media «senza peso», secondo una sua fortunata definizione da contrapporre a quelle forme espressive legate al «peso» della tradizione ottocentesca. Ma con «Senza peso» Luca ha sempre inteso anche lo sconfinamento strutturale e la natura expanded della propria visione, una vocazione che si è amplificata prima con l’immagine elettronica (è tra i pionieri anche della videoarte) e poi con quella digitale. Patella è definibile concettuale? Si, ma solo in quanto, a suo giudizio, «andava inventato attraverso i media e non semplicemente trasposto attraverso di essi».

Pur nella loro autonomia le opere filmiche, per essere meglio comprese, non vanno disgiunte dal lavoro complessivo dell’artista. Immagini, scritte, contenuti e azioni che vediamo nei film infatti, ricompaiono continuamente nelle opere realizzate con altri media e tecniche, come la grafica, la fotografia, gli oggetti, gli «ambienti proiettivi animati» e, infine, i numerosi e articolati libri: vera sintesi visivo-testuale dell’immaginario patelliano dove testo e immagine si invertono di ruolo. Dialettici, didattici e scientifici i film di Patella possono essere letti come le tappe di un graduale passaggio dal sentire (e dal vedere) al fare; dal figurativo (Tre e basta, Manifesto-fanimesto) al comportamento (Intorno fuori, Terra animata), fino a una forma più complessa di «naturalismo attivo» dove, la pseudo-narrazione, si mescola con l’analisi psicoesistenziale. È il caso di Vedo, vado!, l’opera più matura dell’artista, dove vengono riassunte le varie fasi di tale parabola estetica e dove quello che possiamo definire lo «sguardo marziano» di Patella, viene declinato all’ennesima potenza, attraverso quel dispositivo cosmologico che è il fish-eye, oltre che nei film in moltissime opere fotografiche a partire dalla serie di Montefolle. Ma la visione grandangolare ricorre anche in device di sua invenzione come le sfere naturali (1969, ora in deposito alla GNAM di Roma), dentro cui venivano proiettate diapositive.

Tu sei partito dalla grafica, dall’incisione, per poi passare alla fotografia e al film. Puoi raccontarci come è avvenuto questo passaggio?
Ero stato a Parigi all’inizio degli anni ’60 e lì ebbi la fortuna di conoscere Lacan e molti altri. Poi frequentai la scuola del grande incisore Hayter: lui ha ideato la stampa a colori simultanei, cioè li separava su un’unica lastra. Sono stato molti mesi a lavorare con lui ed ero diventato un suo pupillo. Quando sono ritornato a Roma ho applicato quella tecnica alla fotografia: l’acquaforte fotografica a colori simultanei l’ho inventato io. Calvesi e Argan mi avevano dato le chiavi dei laboratori della Calcografia Nazionale e avevo la possibilità di rimanerci fino alle 4 del mattino. Insomma alla fine l’avevo trasformata nello studio mio e di Rosa. Calvesi mi mandò anche in missione a Milano per costruire i rulli in modo da poter stampare con il procedimento di Hayter. Ricordo che cercai di trasferire la tecnica dei colori simultanei anche nei film e, in effetti, così inizia Paesaggio misto del 1966.

Il tuo interesse per il cinema risale a metà degli anni ’60, quando hai iniziato a girare i primi cortometraggi in 16mm. Più o meno nello stesso periodo in cui Mario Schifano, che allora frequentavi, gira i suoi.
Mario sapeva cos’era la fotografia, ma il cinema non lo conosceva. Fui io a prestargli una cinepresa Pathé Poi nel 1964 comprai una 16mm Paillard. Tre e basta è stato uno dei primi esperimenti filmici che girai.
Fin da subito hai usato – come del resto in tutte le tue opere realizzate nei vari campi e con le diverse tecniche artistiche – un approccio particolare, dove la scienza gioca un ruolo centrale.
Come sperimentatore avevo alle spalle una formazione da scienziato, ma ho anche compiuto studi classici e artistici, per cui ho sempre affrontato le cose con grande serietà e complessità. Ero stato assistente di Linus Pauling, doppio premio Nobel per la fisica e la chimica strutturale. Parlo dell’Uruguay degli anni ’50, dove mi trasferii per un periodo. Nonostante quel che si potrebbe pensare, all’epoca la Faculdad de humanidades y ciencias era all’avanguardia.

Il «comportamento» ha una parte importante nei tuoi film, collegato alla performance, alla fotografia, all’installazione con diapositive.
Sì, nel 1964 utilizzai il teatrino di Via Belsiana, con Carlo Cecchi, Paolo Graziosi e Giacomo Piperno. Cominciai a fare riprese e proiezioni e poi allestii anche il mio famoso Ambiente proiettivo animato, che vede Cecchi non come attore che recita ma come «uomo indicativo», cioè che sa comportarsi indicativamente.

Questo prima di approdare alla galleria L’Attico di Sargentini.
Parliamo ancora del periodo in cui esponevo alla galleria del Girasole, dove nel 1965 ho conosciuto Rosa, che poi ho sposato nel 1966. Al Girasole feci una mostra di fotografie e acqueforti fotografiche, mentre in contemporanea a via Belsiana si poteva assistere alle proiezioni dei film. L’ambiente proiettivo lo riproposi poi nel ’68 con Sargentini. Anzi, fui io a inaugurare la nuova sede de L’Attico, ovvero il garage di via Beccaria, con il mio «film-sfera» SKMP2. In quell’occasione fu proiettato anche un film di Godard.

In questi tuoi lavori la parte testuale e concettuale (Crispolti parla di un «concettuale concettoso») è legata alla linguistica e alla semiotica.
Magari scrivevo titoli sull’asfalto, nei dintorni della Calcografia o al Tritone. Nel film Materiale per camminare (1967), con Carlo Cecchi, Eliseo Mattiacci e altri che indicano «in vivo» il comportamento del camminare. Ma specifico che non si tratta di realismo e neppure di flânerie. A un certo punto compare la scritta «più trama» nel senso di narrazione cinematografica ma anche di catturare, imprigionare. Nelle mie opere di allora prendevo in giro anche una serie di movimenti artistici che andavano di moda, come la Minimal, la Pop e l’Optical: pensiamo a Piazza di Spugna, in cui fotografavo una spugna sull’asfalto della piazza romana una piccola spugna ingrandendola.

Veniamo a «Terra animata» del 1967, un breve ma significativo film che tu realizzi anche per una mostra epocale come «Acqua Immagine Terra Fuoco» curata da Boatto e Calvesi all’Attico: una collettiva che anticipa di qualche mese il lancio dell’Arte Povera di Celant situandosi sulla stessa linea di ricerca. Da cosa nasce?
Tre anni prima avevo scattato una serie di fotografie sui campi arati in Toscana. Nel ’67 in occasione della mostra mi venne in mente di «animarle» mediante un’azione performativa ma anche il film. Così andai nella zona delle crete senesi con Rosa, mio cugino Claudio e la sua ragazza di allora, utilizzandoli sempre come non-attori muniti di lunghe fettucce bianche. Poi diedi delle coordinate per tenderle in un certo modo mentre li filmavo e li fotografavo.

Nel film l’uso del colore è davvero straordinario e, grazie al restauro di alcuni anni fa, le tinte sono ritornate brillanti, come nell’originale.
Il film è girato in bianco e nero, ho aggiunto i colori in seguito, in fase di stampa, secondo una certa simbologia junghiana. Il rosso-sentimento è contrapposto al blu-pensiero, il verde-sensazione contrapposto al giallo-intuizione. Il rosso (fuoco e sangue) è pericoloso ma tocca tutto. Mentre il blu avvolge tutto ma non tocca niente, come l’alto e distaccato cielo. Il verde fa riferimento al vegetativo che si contrappone al colpo di luce che illumina la scena. Jung, negli anni ’20 del secolo scorso, ha dedicato un libro a questo argomento: Tipi psicologici.

Hai spesso raccontato della diffidenza che un certo mondo dell’arte nutriva nei tuoi confronti, soprattutto per il fatto di utilizzare media molto diversi tra loro.
In quel periodo la fotografia non la usava quasi nessuno in campo artistico e io ruppi queste classificazioni, facendo cose molto radicali ma anche assai scientifiche. Sargentini era un gallerista innovativo e mi supportò in queste mie ricerche. Tieni presente che ho molte conoscenze di ottica, progettavo, costruivo e/o modificavo da me i dispositivi di ripresa e di proiezione.

Al ’68 risale un altro tuo esperimento filmico importante: SKMP2, formato da quattro episodi che documentano l’attività tua e di altri tre artisti de L’Attico.
C’era una mostra di Mattiacci già allestita e io decido di partire da questo evento dando ad Eliseo indicazioni su come performare con le sue opere. L’episodio successivo, quello di Kounellis si apre invece con la ripresa dal treno Roma-Montepulciano colorata in verde. Poi mi reco nel suo appartamento in fondo a corso Vittorio e riprendo varie sue opere. Il momento più bello del film però è forse quando lui si mette davanti al trenino e io monto l’inquadratura con il treno vero che passa, mentre Jannis si pettina allo specchio. Poi c’è il terzo episodio Manovre naturali, con me e Rosa che manovriamo le nuvole, i fiori, il sole, mediante bandierine navali, usate per dirigere la natura anziché il traffico di navi. Mi ero ispirato al libro del semiologo Prieto. Pensa che per realizzare queste sequenze, tra cui quella in cui pattiniamo sul prato, mi sono servito di uno scatto singolo con un flessibile di più di venti metri!

Mi sembra giusto insistere sul fatto che non è una «semplice» documentazione sul lavoro dei tuoi colleghi, non è una serie di performance, ma qualcosa di molto più singolare.
Senza dubbio, ed è un omaggio al cinema delle origini (per via dei trucchi) e al cinema surrealista in particolare: non è un caso che inizia con Sargentini nelle vesti di mago – come Entr’acte – che fa prima apparire me e Mattiacci poi, dopo la stretta di mano tra me ed Eliseo, fa scomparire me e lui stesso lasciando solo il protagonista dell’episodio e il film può cominciare. A parte l’uso del fish eye e delle animazioni, ho utilizzato anche un arcaico diaframma aggiuntivo all’obiettivo della cinepresa, facendo comparire un occhio in primo piano (il battito dell’occhio è un trentesimo di secondo, quindi si vede e non si vede), altro riferimento a uno dei simboli del Surrealismo e del cinema d’avanguardia (l’occhio tagliato di Un Chien andalou, ecc.).

L’ultimo episodio del film vede come protagonista Pascali e assume un valore particolare perché qualche settimana dopo l’artista muore in un incidente di moto, dunque si tratta dell’ultima testimonianza filmata che abbiamo.
Avremmo dovuto girare un’ultima sequenza con Pino nelle vesti di uccello. Buttammo giù uno storyboard – purtroppo poi andato perduto – molto dettagliato. Lui aveva realizzato un «nido», che fu anche esposto alla Biennale di Venezia durante quelle settimane.

Che fortuna critica e quale diffusione ha avuto SKMP2?
Ha girato molto. Per esempio due anni dopo fu inserito nella mostra Information al MoMA, che poi acquistò due copie del film. Ma purtroppo il senso – e anche la paternità di SKMP2 – è stato spesso travisato. Un collezionista voleva addirittura smembrarlo in quattro episodi separati, mentre un poeta milanese voleva proiettare solo l’episodio di Pascali ma io e Rosa ci siamo sempre opposti a queste manipolazioni. Il film va visto come unicum, mica si possono estrapolare i pezzi come pare e piace. Comunque questo film, come gli altri miei, è stato proiettato in vari musei internazionali: Parigi, Londra, Amsterdam, New York, ecc.

Un tuo film meno conosciuto è «Vedo vado» del 1969, che hai realizzato in 35mm per la Corona cinematografica, casa di produzione dei fratelli Gagliardo che frequentavi spesso e per la quale tua moglie Rosa ha girato diversi cortometraggi animati.
Alla Corona io ho cominciato a lavorare già nel 1966 dove mi introdusse Franco Brocani, poi testimone al nostro matrimonio e girò un cortometraggio su di me e Mario Schifano dal titolo È ormai sicuro il mio ritorno a Cnosso in cui compare anche il laboratorio della Calcografia. In seguito ci diede le chiavi della casa di produzione perché si era convinto che ogni nostro film vinceva i premi qualità del ministero (meccanismo con cui i produttori di corti si finanziavano all’epoca). Passavamo quindi le notti alla cinepresa verticale a inventarci cose. Per Vedo vado avevo una piccola troupe a disposizione. Il film prese anche un premio alla Mostra di Venezia.

Come possiamo definire «Vedo vado»?
È un film psicanalitico e «proto-citazionista», basato su un articolato e ironico pretesto narrativo: un pacchetto rosa (ancora un riferimento a mia moglie) conteso da diverse persone. Nel finale Sargentini e Rosa, in un bar stile Liberty, litigano in un dialogo che sentiamo al rovescio, finché l’involucro del pacco non si rompe lasciando fuoriuscire una serie di citazioni e di rimandi alle origini dei dispositivi del XIX e XX secolo, dalle fotografie stereoscopiche alla sala cinematografica a forma di balena.

Pochi sanno che tu non hai girato solo film sperimentali ma anche eventi politici. Molte di queste immagini non le hai montate e attualmente si trovano depositate insieme ad altri tuoi materiali alla Cineteca Nazionale.
I miei cugini erano tra i capi del movimento Servire il popolo. Ricordo che una delle sequenze la girai durante una manifestazione a Piazza Esedra nel ’68 con lo scatto singolo, in cui si vede un brulichio di militanti che si anima. Insomma utilizzavo gli stessi procedimenti di stop-motion degli altri miei film. Qualcuno ha pensato che fossi della polizia proprio perché scattavo singole immagini a tutti, tipo foto segnaletiche. Per fortuna che mio cugino tranquillizzò il servizio d’ordine altrimenti probabilmente sarebbe finita male.