Viviamo un momento storico particolare, in cui c’è grande confusione sui temi legati alla sostenibilità, perché dalla parte delle imprese c’è molto greenwashing, molto ethical washing e per il cittadino è difficile orientarsi. Anche per questo che abbiamo scelto di entrare a far di un sistema di garanzia internazionale, quello della World Fair Trade Organization (Wfto), la cui certificazione guarda all’organizzazione e non al singolo prodotto, come può essere quella biologica», racconta Giovan Battista Girolomoni. Ha quarant’anni (è nato nel 1983) ed è presidente della Cooperativa agricola Gino Girolomoni, la società dedicata al padre, tra i pionieri dell’agricoltura biologica in Italia, che l’aveva fondata nei primi anni Settanta a Isola del Piano, in provincia di Pesaro e Urbino, nell’Appennino marchigiano. Nel 2023 la cooperativa – che produce cereali e li trasforma in pasta – è stata riconosciuta come impresa garantita fair trade dalla Wfto, network mondiale di organizzazioni del commercio equo e solidale che conta più di 350 soci in 70 Paesi. È la prima filiera food 100% italiana ad entrare nella World Fair Trade Organization.

Qual è per voi l’importanza di questo nuovo passaggio?


Anche se i disciplinari del commercio equo sono regolamenti privati, con forza normativa diversa rispetto al disciplinare dell’agricoltura biologica, che discende da una Direttiva europea, crediamo nell’importanza di una certificazione capace di andare oltre il prodotto, che non riguarda solo una linea di produzione. Per fare un parallelo con il mondo del biologico, la differenza è quella che passa tra un’azienda che fa solo agricoltura biologica, come la nostra, e una che produce anche in convenzionale: la maggior parte dei prodotti «bio» in commercio arrivano da aziende di questo secondo tipo. Per noi, invece, il regolamento dell’agricoltura biologica è un punto di partenza, direi quasi il «minimo sindacale» per come vediamo il mondo. In azienda rispettiamo da sempre i principi del commercio equo e solidale, l’equità, la trasparenza della filiera, la qualità del lavoro: oggi tutto questo è certificato.

Un passo in avanti e un messaggio al mercato e ai consumatori.

Se un certo linguaggio in passato era riservato ad aziende che avevano un approccio integrale, quasi di militanza, oggi concetti come quello di «biodiversità» vengono usati anche dai grandi gruppi multinazionali. Per noi questa è una sfida, a cui rispondere valorizzando le nostre comunità di riferimento, quelle agricole dei nostri soci e anche quelle del commercio equo, a cui siamo affini. Rappresenta senz’altro un modo per segnalare la diversità, oggi che tutti fanno «bio»: nel mondo della pasta siamo un realtà piccola, con 9 mila tonnellate prodotte in un anno nel 2022; come azienda, siamo considerati una piccola-media impresa, con 18 milioni di euro di fatturato. Dall’avvio delle attività, nel 1971, abbiamo dovuto attendere l’89 prima di riuscire a costruire il nostro pastificio, frutto di un investimento importante, mentre solo nel 2019 siamo arrivati a realizzare anche un molino al servizio del pastificio.

Uno dei concetti chiave del commercio equo è la costruzione di filiere basate su relazioni stabili.

Il grano duro è considerato una commodity globale, coltivato in Canada, negli Stati Uniti, in Australia. Noi lavoriamo in Italia con aziende professionali medio-piccole. È stata una sfida: tra i pionieri dell’agricoltura biologica, tanti erano agricoltori part-time. Negli anni tra i soci della cooperativa sono entrati invece soggetti che vivono solo di agricoltura, che oggi rappresentano la parte preponderante. L’approccio, quindi, dev’essere diverso: la Girolomoni garantisce certezza del conferimento, il pre-finanziamento della semina (scalando dal prezzo di conferimento del grano), ma anche la capacità di gestire la formazione (incontri su come districarsi sulle opportunità ad esempio nei bandi del Piano di sviluppo rurale). Il nostro ruolo non è solo pagare meglio il grano, che è normale in una cooperativa a scopo mutualistico. Sigliamo contratti di filiera triennale, l’anno scorso sono stati 400, di cui circa 300 con realtà associate alla coop. Ogni anno programmiamo gli ettari che ci servono. Non lavoriamo all’ammasso: non siamo commercianti.

Un altro elemento che caratterizza il fair trade è la distribuzione. Come vendete la vostra pasta?

In prevalenza all’interno di circuiti alternativi alla Grande distribuzione organizzata. In Italia il canale principale è il negozio specializzato di prodotti biologici, ma anche piccoli negozi di alimentari, pescherie, panetterie e poi il circuito del commercio equo e solidale. Vendiamo anche ai Gas, con acquisti diretti e online, ma non direttamente: abbiamo preferito costruire partnership con soggetti che fanno quello. L’80% del prodotto, comunque, è esportato. Il Paese principale è la Francia, quindi Germania e Stati Uniti. Siamo in 28 Paesi.

Un libro, uscito nel 2022, racconta i 50 anni della Girolomoni. Vi definite «Custodi delle terra». In che modo l’esperienza di oggi continua l’intuizione di tuo padre?

Realizzare la scelta di chiudere la filiera con il mulino non è stato banale: è la cosa più importante degli ulitmi dieci anni e ancora oggi ce ne meravigliamo. Fa parte di quella visione ecosistemica che abbiamo ereditato dai fondatori: anche chi arriva oggi in cooperativa ha chiaro che il fine ultimo non è la pasta; per quanto sia il nostro mestiere e il motore del progetto, la pasta rimarrà un mezzo, il mezzo per continuare a tenere vivo un territorio che come altri dell’Appennino verrebbe abbandonato. Rappresenta anche un messaggio culturale, che dimostra che gli agricoltori che se si mettono insieme possono ambire ad uscire dalla riserva nei quali l’industria agro-alimentare vorrebbe confinarli. L’immaginario degli ultimi 50 anni vuole il contadino produttore di commodity, mentre il cibo arriverebbe da altrove. Non è così: gli agricoltori producono cibo, non solo materie prime.