La città europea è un archivio coloniale, che si tratti di Londra e Parigi o di Napoli e Milano. Cioè, è già un archivio aperto e non ha bisogno di un museo o di un’istituzione specifica per segnare questa situazione. Invece di costruire il museo e monumentalizzare il passato, uccidendolo nel catalogo delle forme morte, è certamente più importante avere i mezzi per leggere, ricevere e criticamente trasformare questa eredità. Questo renderebbe la storia un atto interpretativo e agonistico; qualcosa troppo importante per lasciarlo agli storici. Come Igiaba Scego e Rino Bianchi ci hanno insegnato in Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città (2014), leggere i nomi delle sue strade e delle sue piazze significa già incontrare memorie scolpite nella pietra, nel cemento e nel vetro. È registrare la costituzione coloniale di ogni città occidentale.

CONSIDERARE la circolazione del capitale coloniale, estratto dall’aggressione territoriale e dal lavoro degli schiavi e dai subalterni della terra, significa scavare più a fondo negli edifici moderni. Nel 2015 il governo britannico ha finalmente estinto il debito di circa 17 miliardi di sterline pagato ai loro proprietari per la liberazione degli schiavi nell’Impero britannico nel 1834. Quel capitale è andato a finanziare le fabbriche, le innovazioni tecniche che hanno prodotto le città della rivoluzione industriale, popolate dalle emergenti classi lavoratrici, l’estrazione brutale di risorse umane, animali e terrestri su scala planetaria e le basi dell’odierno dissesto ecologico.

Così come a Napoli lo spazio ingannevole verde disteso della Mostra d’Oltremare di oggi, per non parlare dei legami diretti, ma ignorati, con il saccheggio del Messico e la distruzione del mondo meso-americano incarnati nella denominazione e richezza della Villa Pignatelli-Cortés sulla Riviera di Chiaia, così bene esposta nell’opera del 2020 dell’artista Maria Thereza Alves: Thieves and Murderers in Naples: A Brief History on Families, Colonization, Immense Wealth, Land Theft, Art and the Valle de Xico Community Museum in Mexico (Ladri e assassini a Napoli: Breve storia delle famiglie, della colonizzazione, dell’immensa ricchezza, dei furti di terra, dell’arte e del Museo della Comunità Valle de Xico in Messico).

Domani si terrà un evento, parte del progetto di ricerca artistica in corso, «Il Paese delle Terre d’Oltremare. Architettura di cemento e cartapesta: restaurare l’irrestaurabile» coordinato dall’artista Alessandra Cianelli e dall’architetto Filomena Carangelo, nel gigantesco polo espositivo della Mostra d’Oltremare di Napoli. Si tratta di un percorso a piedi intervallato da un picnic, in cui muovendosi tra edifici e siti selezionati, verranno proposte una serie di osservazioni che verranno poi condivise a fine giornata in uno scambio di commenti e discussioni.

INAUGURATO il 9 maggio 1940 e chiuso un mese dopo, quando l’Italia entrò in guerra, il sito, traboccante di retorica fascista, annuncia trionfalmente l’ingresso dell’Italia nella modernità come potenza coloniale e imperiale. La continuità viene celebrata dall’Impero Romano, attraverso la difesa della cristianità dall’Islam e dall’Impero Ottomano, fino alle moderne tecnologie che hanno garantito la presa occidentale sul mondo, per poi depositarsi nella presenza fisica di popolazioni e flora indigene provenienti dalle colonie libiche ed etiopiche appena conquistate. Si dimentica troppo facilmente che poco più di settanta anni fa tutti i territori che si affacciano sulle sponde africane e asiatiche del Mediterraneo erano controllati direttamente da Parigi, Londra e… Roma.

SI TRATTA DI INTERROGARE, perfino capovolgere la Mostra d’Oltremare e di svuotarne i contenuti e i linguaggi. Rileggere e rielaborare questo materiale come impresa contemporanea significa interrompere la cronologia istituzionale per proporre un altro assemblaggio, forse illuminati da futuri non autorizzati, e di toccare un’altra poetica e politica. In altre parole, sostenere la creazione di un altro spazio-tempo in contrapposizione ai soliti archivi del dominio. Ciò significa sollevare domande fondamentali sullo status e sul ruolo degli archivi nella nostra vita. Se la città è un archivio: come viene definito e costituito, da chi, dove e come; chi ha il diritto di registrarlo e riconoscerlo? Per aprire questo contenitore e ricomporre i suoi frammenti in modo più aperto e democratico, basta considerare l’interrogativo posto dagli indigeni dell’Africa Orientale Italiana portati a Napoli nel 1940 e il ritorno di tale storia attraverso il migrante contemporaneo. L’Africa scivola sotto l’Europa lungo le fessure coloniali. Il tempo lineare viene tagliato e ha solo una pertinenza locale; diventa quantistico.

Su tutto questo regna la violenza del silenzio. Rimane la sfida del rifiuto di ascoltare, rispondere e assumersi la responsabilità di questo spazio e di una storia che respira ancora nella costituzione del presente. Tra il fisico e l’immateriale, tra il monumentale e la memoria, emergono altre narrazioni che ci permettono di intervenire senza permesso in una ripresa della città coloniale come palinsesto per un altro futuro. Il nostro rifiuto deliberato delle coordinate ereditate e della semantica associata ci permette di contestare la dissoluzione progettata degli spazi sociali, la loro gestione esistente e la colonizzazione capitalistica del patrimonio pubblico.

In questa strategia, l’esercizio delle arti nella loro disseminazione dell’eccesso di senso, fornisce una piattaforma sperimentale ma incisiva come linguaggio critico. L’interruzione che le arti spargono crea buchi neri nello spazio-tempo, rimettendo in libertà energie che permettono il recupero di luoghi negati, memorie abbandonate e storie rifiutate.
I resti fisici e metafisici della Mostra d’Oltremare, una volta ricomposti in questo modo, permettono un’altra mappatura del mondo attuale. Si estende ben oltre i confini del fascismo italiano per attraversare l’Occidente e per registrare, in ultima analisi, la formazione coloniale della stessa modernità… da questo camminare tra le rovine dei sogni coloniali frantumati nei prati della Napoli occidentale e del pianeta.