108 fotografie. Una mostra, una performance.  Una camera oscura che ospita il pubblico trasformandosi in un piccolissimo teatro. Il contrasto pieno di ombre giocato tra bianco e nero. Un progetto che si intitola Mnémosyne, autore Josef Nadj. Bello ricontrare a Bologna l’impatto visionario di questo artista, ospite anche con lo spettacolo Omma all’Arena del Sole nel focus sul corpo e sulla drammaturgia fisica intitolato Carne, curato da Michela Lucenti nella programmazione dell’ERT.
Coreografo, danzatore, artista visivo, fotografo, Nadj è stato a partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento uno straordinario inventore di spazi d’azione trasformisti, abitati da storie kafkiane animate da una danza di imprevedibile espressività. Indimenticabili. D’altronde la memoria è una compagna impertinente che si diverte a far emergere nel pensiero e nel sentire la sua mappatura ondivaga e emozionale. Storie kafkiane animate da una danza di imprevedibile espressività

Scarti, evasioni, accadimenti che si infrattano nel buio a contrasto con la nitidezza di folgoranti immagini a piena luce che primeggiano nel flusso del tempo. Una giocatrice con cui si condivide il viaggio. Così in Mnémosyne, omaggio all’omonimo Atlante incompiuto dello storico dell’arte tedesco Aby Warburg, ritroviamo il segno surreale dell’artista Nadj, una finestra che si apre e si richiude su un universo portavoce di una drammaturgia corporea e paesaggistica.

SCULTURE frastagliate e appiattite di ranocchie, un coniglio bianco, gatti, rami, bottiglie, un bicchiere, uno scarabeo, una noce, una mano d’uomo (ma più di ogni cosa le ranocchie) sono gli stravaganti protagonisti delle foto in bianco e nero. Il pubblico li osserva nella mostra adiacente alla scatola nera/camera oscura nel quale sarà invitato a entrare. Dentro ecco Nadj, vestito di nero, testa completamente fasciata di bianco. Musiche di Peter Vogel e Schubert. Ha in mano una piccola scultura di ranocchia. Altri oggetti marcano in modo pittorico lo spazio, una sedia, un manichino, un animaletto forse di das a cui cambiare forma.

OGNI OGGETTO, ogni passo marionettistico è un gioco di ricordi personali dell’autore: per il pubblico una piccola, magnetica storia chiusa dal rumore di uno scatto fotografico. Se Mnémosyne riannoda il filo con il passato, Omma è un incontro con il tempo presente. Nadj cerca danzatori nuovi con cui reinterrogarsi sulla necessità del gesto e della danza, su ciò che ci muove e ci commuove, come direbbe Pina Bausch, lontani da ogni forma di decorativismo. Ne sceglie otto nati in Africa, provenienti da Mali, Senegal, Costa d’Avorio, Burkina Faso, dai due Congo. Ed è una coincidenza interessante che in questi stessi anni con danzatori africani si sia anche rimontato un pezzo cardine del repertorio Bausch come Le Sacre du Printemps.
Omma presenta una collettività: gli otto danzatori arrivano uno dietro l’altro, un unico passo, uno stesso cammino, vestiti tutti di nero. Il movimento però si fa pressante, le giacche volano via, la massa di identici lascia spazio all’umanità dei singoli. L’individualità vibra nei corpi come nel canto, nelle parole, nel virtuosismo in relazione battente con il ritmo percussivo del collage musicale.

Coreografia da “Mnémosyne”

MA LA DRAMMATURGIA fisica, che è sempre anche figlia di una memoria del corpo collettiva oltre quella del singolo, non può fare a meno di toccare qua e là gesti che si legano alla storia del popolo africano. Una storia di estenuanti battaglie, rivolte, migrazioni. La pungente mnémosyne stuzzica così ancora una volta il pensiero, se pur a vincere in scena e meritatamente è la potenza degli otto danzatori.