Cultura

Un avventato passaggio di frontiera

Un avventato passaggio di frontieraLa Bestia, el tre de la muerte, murales a Oaxaca

Casi editoriali Uscito negli Stati uniti come «American Dirt» e in Italia, per Feltrinelli, «Il sale della terra», il romanzo di Jeanine Cummins che racconta storie di migranti messicani è accusato di trasformare il dramma in un tema di intrattenimento

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 31 gennaio 2020

Literal. Latin-american voices (http://literalmagazine.com) è un’eccellente rivista bilingue nata a Houston e destinata a promuovere la cultura latinoamericana, prendendo in esame tutte le sue varianti e contaminazioni; è perciò alquanto insolito che tre giorni fa abbia dato ampio risalto all’articolo dello scrittore messicano Alberto Chimal su American Dirt di Jeanine Cummins, autrice del Maryland poco nota fino a un mese fa e improvvisamente ascesa all’Olimpo dei best sellers, in un trionfale turbinìo di cifre: nove case editrici ansiose di acquistare il manoscritto; sette zeri per l’anticipo con cui Flatiron Books, marchio del gruppo McMillan, se lo è assicurato; cinquecentomila copie di prima tiratura; otto traduzioni quasi simultanee (quella italiana, affidata a Francesca Pe’, è apparsa in questi giorni presso Feltrinelli, col titolo Il sale della terra, pp. 410, euro 18).
Se Chimal parla del romanzo di Cummins è per commentare la polemica che infuria intorno a un’opera presentata come «unica» e «piena di compassione», nonché capace di smuovere le coscienze nell’epoca della dissennata politica migratoria statunitense.

AMBIENTATO in Messico, American Dirt narra infatti la vicenda della libraia Lydia Quixano, in fuga verso gli Stati Uniti con il figlioletto Luca dopo che i narcotrafficanti le hanno ucciso il marito giornalista; benché sia una borghese non sprovvista di privilegi, l’atterrita protagonista e voce narrante decide di raggiungere la frontiera con gli Usa a bordo del famigerato treno merci chiamato La Bestia, così che il lettore wasp possa confrontarsi col tema della migrazione, qui trasformato, secondo Chimal, in un prodotto di intrattenimento che oscura le cause di fondo e manca di ogni consapevolezza del contesto sociale e politico, nonché del ruolo degli Stati Uniti «come paese consumatore di droghe e fornitore di armi ai cartelli», o «della corruzione e del razzismo a nord del Rio Bravo».
Il romanzo è «insufficiente nel migliore dei casi, e nel peggiore deliberatamente disonesto», scrive ancora Chimal, e la sua è solo l’ultima delle molte voci che lo mettono in discussione, opponendosi ai giudizi entusiasti di celebrità come Stephen King e Don Winslow, di un paio di scrittrici e attrici chicanas precettate per l’occasione e soprattutto di Oprah Winfrey, che ha inserito il libro nei suoi ambitissimi consigli di lettura, da sempre garanzia di alte vendite.
Valeria Luiselli, la più tradotta e stimata delle scrittrici messicane – premiata con l’American book Award e autrice di un magnifico romanzo sulle migrazioni, Archivio dei bambini perduti, pubblicato da La Nuova Frontiera – ha subito ribattuto al consiglio di Oprah con un tweet lapidario: «con tutto il rispetto, mi pare la peggiore scelta possibile fra i libri del 2020».
Anche più feroce è stata la giovane scrittrice Myriam Gurba, in una recensione prima commissionata e poi rifiutata da Ms.Magazine – storico trimestrale femminista e liberal -, che l’ha considerata «troppo negativa». Approdato al sito Tropics of Meta, l’articolo di Gurba esprime una sarcastica e quasi divertita indignazione: Lydia è una messicana del tutto inattendibile, che trasecola davanti alla realtà quotidiana del proprio paese («di fatto, la percepisce attraverso gli occhi di una turista americana aggrappata alla sua collana di perle»), mentre il romanzo appare come «una sorta di fantasia trumpiana di ciò che è il Messico (…), tanto più nociva in quanto lo si fa passare per letteratura progressista».

Jeanine Cummins

ULTERIORE MOTIVO di critica è stato l’atteggiamento dell’autrice, che, da sempre autodefinitasi «bianca», all’improvviso ha tirato fuori una nonna portoricana che le consente di presentarsi come «bianca e latina» e proclama di tenersi lontana dalle «strumentalizzazioni politiche»; parecchi lettori, inoltre, si sono presi la briga di verificare quanto il suo romanzo debba alle opere di scrittori chicanos che secondo loro Cummins avrebbe saccheggiato. L’ultimo spunto alle proteste, infine, l’ha offerto la casa editrice, che per il sontuoso ricevimento promozionale ha scelto centrotavola a forma di muri circondati da filo spinato.
Una disapprovazione così accesa, che a una massiccia campagna in rete e sulla stampa unisce minacce di boicottaggio e che ha indotto anche Oprah ad accennare una mezza marcia indietro, viene etichettata da più parti come un’esplosione di esasperata correzione politica; nel coro delle proteste, infatti, è risuonata più volte l’accusa di appropriazione culturale, cui si può rispondere solo con un’ovvia osservazione: sarebbe insensato pretendere che soltanto gli appartenenti a una certa realtà siano autorizzati a scrivere (o a girare film, o a disegnare fumetti) su di essa.
Il terreno della cosiddetta appropriazione culturale è però terribilmente scivoloso e non si può affrontare in modo schematico o semplicistico, limitandosi a chiedere polemicamente se solo chi è messicano abbia il diritto di scrivere sul Messico. Così si elude o si nega il problema, originando vistosi fraintendimenti circa le ragioni del risentimento nei confronti di American dirt, romanzone page-turner che qualcuno ha spensieratamente paragonato a Furore di Steinbeck e che procede a forza di colpi di scena, sentimentalismo e orrore, commozione a buon mercato, emozioni forti condite da espressioni spagnole che sembrano uscite dal traduttore di Google o vengono usate a sproposito, il tutto coagulato intorno a un tema di «bruciante attualità».

I SUOI CRITICI non hanno torto, il libro è pieno di inesattezze, errori e sciatterie che denunciano scarsa conoscenza della realtà, delle usanze e della cultura del paese che pretende di rappresentare, mentre compone un approssimativo collage con materiali raccattati qua e là, o ricorre ai più triti stereotipi sulla «messicanità» e a personaggi con la pelle molto scura (un dettaglio dal quale l’autrice sembra ossessionata) impegnati a recitare nei ruoli che l’America bianca gli ha da sempre assegnato.
Ai nuovi cittadini americani di origine «latina», agli indocumentados di un tempo, a una comunità tuttora considerata di serie B e insultata o minacciata dallo stesso Presidente in carica, non sarebbe certamente dispiaciuto un punto di vista esterno sul complesso dramma dei migranti e capace di accostarsi a esso, e una cultura diversa dalla propria, con rispetto e interesse: entrare in altre vite e in altre storie non è forse l’essenza della letteratura? American dirt, tuttavia, preferisce intrattenere i lettori con pagine «deliberatamente facili» e troppo lontane dalla realtà della migrazione, cosa che può passare inosservata agli occhi di molti, ma non sfugge a quanti l’hanno vissuta, o semplicemente si sentono parte in causa.

A TUTTO QUESTO va aggiunta la sensazione di essere in qualche modo derubati delle proprie storie, adattate alle esigenze del lettore «bianco», e viene giudicato offensivo che si faccia un così massiccio investimento su un romanzo che la grande maggioranza dei lettori, degli scrittori e dei critici di origine latinoamericana giudica oltraggiosamente fasullo, mentre dozzine di voci «autentiche» e, quel più conta, letterariamente pregevoli, vengono relegate ai margini o ignorate dalla grande editoria, in cui le presenze ispaniche sono appena il 3%, percentuale che cala ulteriormente fra i dirigenti.
Dunque non resta che suggerire, a chi voglia fare un confronto fra un «precotto» come American dirt e le grandi storie sulla migrazione, i libri di tre autori messicani contemporanei, pubblicati anche in italiano: La trasmigrazione dei corpi di Yuri Herrera e Terra bruciata di Emiliano Monge (entrambi tradotti da La Nuova Frontiera), e La fila indiana di Antonio Ortuño (Sur), che racconta dello stesso treno su cui viaggiano Lydia Quixano e il suo figlioletto. La differenza c’è, e si vede.

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