Passa la «legge anti-proteste»: a Kiev scontri in piazza, almeno 200 feriti
Ucraina In 100mila contro premier e svolta autoritaria
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Anche ieri, dopo la serata di domenica, s’è combattuto in ulica Grushevskogo. Su questa via, che si distende tra lo stadio della Dinamo Kiev e piazza dell’Indipendenza, il cuore della protesta, alcuni manifestanti – pare circa 2mila – si sono scontrati con le forze di sicurezza. I resoconti dal posto raccontano di lanci di bottiglie incendiarie contro gli agenti, che hanno risposto sparando fumogeni e proiettili di gomma. Duecento feriti, tra cui un’ottantina di agenti e qualche giornalista. Trenta le persone arrestate in relazioni agli scontri. Ma cos’è che ha riportato la tensione a Kiev, dopo che nelle ultime settimane la protesta, iniziata esattamente due mesi fa, aveva perso intensità? La causa sta nelle bruttissime misure votate giovedì dal parlamento, senza discussione, su ordine di Yanukovich. Fissano paletti molto severi alle manifestazioni. Tant’è che sono state ribattezzate «leggi anti-proteste». Ma anche la stampa è finita sotto tiro. Alcuni dei provvedimenti licenziati giovedì possono potenzialmente metterle il bavaglio.
L’approvazione dell’odioso pacchetto ha fatto imbufalire l’opposizione, che domenica ha chiamato gli ucraini a tornare in piazza. La risposta c’è stata: centomila persone hanno preso parte alla protesta. Il resto è noto. Le violenze, la tensione, il clima di battaglia hanno fatto il giro della rete e dei notiziari televisivi. Come andrà a finire? Non è facile prevederlo. I capi dell’opposizione non sembrano controllare i gruppuscoli che hanno mosso battaglia, brandendo spranghe e idranti. Dando tutta l’impressione di sapere cosa fare e come colpire, ha scritto il Washington Post. Questo in teoria fa il gioco di Yanukovich. Se passa il messaggio che sono i dimostranti a cercare lo scontro, il presidente può chiudere la partita con la forza, applicando le leggi che lui stesso, qualche giorno fa, ha fatto piovere in parlamento. Le dichiarazioni del procuratore generale Viktor Pshonka darebbero forza a questa lettura: «La legge e la costituzione – ha detto – sono l’essenza di uno stato democratico e portare sulle strade ultimatum, pietre e molotov è inaccettabile». Traduzione: sono le richieste di dimissioni inoltrate dall’opposizione nei confronti di Yanukovich e della maggioranza, entrambi legittimamente eletti, a determinare lo scoppio delle violenze di questi ultimi giorni, definite dal procuratore generale come una «minaccia alla sicurezza nazionale». Ma non è detto che sarà repressione. Quella di Yanukovich potrebbe essere una «finta». Le leggi restrittive e la minaccia dell’uso della forza, oltre al fatto che non è del tutto da escludere che i dimostranti facinorosi possano recitare una parte loro assegnata, potrebbero configurarsi come forme crescenti di pressione verso l’opposizione, per indurla a schiodarsi dalla piazza. La protesta prolungata riesce a tenere uniti, in nome della lotta a Yanukovich e alla sua cricca, partiti che altrimenti faticherebbero a trovare una chimica. Se Yanukovich riuscisse a trascinare via dalla piazza i luogotenenti della Tymoshenko, i centristi dell’ex pugile Vitali Klitschko e gli ultra-nazionalisti di Svoboda potrebbe sfruttarne poi le divisioni e aprirsi il varco decisivo alla (non facile) rielezione, a inizio 2015. Ma ieri i capi dell’opposizione hanno snobbato la proposta del presidente di tenere colloqui tesi a sbloccare la situazione. Non intendono chiudere la protesta.
Ci sono altre chiavi di interpretazione da non trascurare. Potrebbe anche darsi che, come dice l’ex ministro degli interni Yuri Lutsenko, che Yanukovich sia stato soppiantato dagli apparati dell’intelligence e non conti più nulla. Come potrebbe darsi che le «leggi anti-proteste» siano l’ultimo passo di un percorso, iniziato con il rifiuto degli Accordi di associazione con l’Ue e proseguito con l’accettazione dell’offerta cash e gas giunta da Mosca, durante il quale Yanukovich – così ha scritto lo storico Timothy Snyder sulla New York Review of Books – s’è accorto di essere un presidente troppo debole per vincere democraticamente un’altra elezione.
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