L’abito non fa il monaco, dice un proverbio, tuttavia capita che lo faccia. Specie se l’abito del monaco, appartenente a un ordine mendicante, è conforme alla regola che contempla il saio, il cappuccio, il cordiglio, i sandali. Come il francescano, barba lunga e folta su una corporatura massiccia con età intorno alla quarantina, che aspettava ben visibile a un crocicchio l’automobilista disposto a dargli un passaggio. Anche noi aspettavamo, con la marcia a folle, che scattasse il verde del semaforo. L’autostop prefigura il viaggio, spostamenti su lunghe distanze; il passaggio è per tratti brevi. Tenne a distinguere non appena gli facemmo posto in macchina. Era ancora mattino, lui diretto a Napoli, noi, con 300 chilometri già percorsi, al parco della reggia dei Borbone per trascorrervi la Pasquetta. In ogni festività l’immancabile trambusto alla reggia di Caserta, proprio convinti di volerci andare? Don Bonaventura, così si faceva chiamare, ci mise sull’avviso. Benché d’accento campano, il francescano era nato nel distretto del Bronx, a New York City, da migranti del beneventano. Se n’era venuto in Italia fin da ragazzo, accompagnato dai suoi e dalla vocazione.

Alquanto loquace, cominciò a descriverci un luogo panoramico di straordinaria bellezza sopra una collina di quasi 500 metri di quota da cui dominava non solo la metropoli partenopea ma l’intero suo golfo, dalla penisola sorrentina a Marechiaro comprese le isole famose. Questa meraviglia corrispondeva all’Eremo di Camaldoli dove risiedettero fino agli anni ’90 i monaci camaldolesi, una diramazione dell’ordine benedettino. Nell’eremo, continuava il monaco, luogo di preghiera e di studio, ci si poteva votare alla vita contemplativa e raccogliersi nella propria cella in meditazione. Ad ascoltarlo c’era da restare interdetti: contemplare, meditare… perfino chiusi in cella! La nostra esistenza, piuttosto gaudente, era scorsa con leggerezza, priva di approfondimenti; scansavamo se possibile situazioni complicate, le noiose problematiche del quotidiano. E tutto al di fuori di qualsiasi indottrinamento religioso, gli spiattellammo alla fine. Macché! Nessun problema, rassicurò, i confratelli erano liberi dalla schiavitù dei pregiudizi verso chiunque: credenti e no. Il francescano era l’ospite di Pasquetta, di conseguenza noi, suoi compagni di strada. Giunti all’eremo, le vedute panoramiche non tradirono le aspettative. Ma con garbo declinammo l’invito a fermarci; dovevamo proprio scappare via, ci scusammo. Nei saluti, la sorpresa: scambiandoci i foglietti con gli indirizzi, su quello di don Bonaventura mancava il cognome. E lui, serafico: Don, variante di Donald negli Stati Uniti, non è un titolo ma nome di persona; Bonaventura è cognome. Gli era sembrato strano, aggiunse, che ogni volta nel chiamarlo pronunciassimo nome e cognome.