Pasquale Pinto, a Taranto dalla desolazione alla esperienza operaia
SCAFFALE «La terra di ferro e altre poesie (1971 – 1992)», a cura di Stefano Modeo per Marcos y Marcos
SCAFFALE «La terra di ferro e altre poesie (1971 – 1992)», a cura di Stefano Modeo per Marcos y Marcos
Pasquale Pinto prima fu poeta, poi operaio. All’Italsider entra nel 1964, lo stesso anno in cui ha inizio la produzione. Ma a vent’anni aveva cominciato a mettere in versi la sua vita in una città, Taranto, e in un luogo il Sud, in profonda trasformazione. Con La terra di ferro – e altre poesie (1971 – 1992) le edizioni Marcos y Marcos (pp. 144, euro 20) accresce la collana dedicata alla poesia operaia, inaugurata con un’antologia dedicata a Luigi Di Ruscio.
LA TERRA DI FERRO si rivela una terra di mezzo tra un paradiso perduto e un territorio desolato (dopo essere stato sfruttato). Questo è il punctum della poesia di Pinto, che coglie e ci rimanda il profondo cambiamento indotto dall’industrializzazione forzata del Mezzogiorno. «Contadini/ anche se oggi i pullman/ vi conducono lontano dalle campagne/ all’ala radunate tutte le foglie degli alberi». Sono i metalmezzadri di cui aveva scritto Walter Tobagi sul Corriere della Sera. La fabbrica ha finito per modificare anche la città, fino a piegarla. E dunque, la mutazione è anche di civiltà, antropologica. «Ho visto in un market/ crisantemi con rugiade artificiali e garofani di plastica/ turbarsi per l’odore di una mano».
Pinto s’inserisce in una linea poetica che si afferma alla fine degli anni ’70, cosiddetta «selvaggia», portata avanti da autori irregolari, nati nella fabbrica come Di Ruscio, o l’altro pugliese Tommaso di Ciaula. Le catene di montaggio e le linee di produzione diventano in forma-tardo realistica i luoghi naturali dello sfruttamento. Drammaticamente profetiche sono le sue ultime poesie dedicate alle morti sul lavoro.
L’ESPERIENZA OPERAIA da cui scaturisce la poetica di Pinto non è, tuttavia, una gabbia. Come scrive uno dei direttori della collana, Fabio Pusterla, la fabbrica «si apre a una più vasta dimensione metaforica, nel bilico costante tra spietata rappresentazione della devastazione (di esistenze, di paesaggi, di comunità) e audacia dello sguardo che spinge verso un orizzonte ancora utopico».
Per Simone Giorgino, che firma la prefazione, la poesia di Pinto «innesta nel tronco di una tradizione lirica meridionale una ‘gemma’ di poesia civile, rivolta a rappresentare, nel blues del suo rapsodico dettato, la perturbante eterotopia d’una fabbrica d’acciaio».
COSTRUIRONO UN MOSTRO, e lo hanno chiamato progresso. «Un paesaggio classico è stato letteralmente messo a ferro e fuoco. Gli ulivi, il sole e le cicale rappresentavano sonno, rassegnazione, miseria. Ora qui gli uomini hanno costruito una cattedrale immensa, di metallo e di vetro, per scatenarvi dentro il mosto infuocato chiamato acciaio, e che significa vita», così le parole di Dino Buzzati nel 1962 per il docu-film Il pianeta acciaio di Emilio Marsili, suonano oggi atroci e beffarde.
Questa poesia testimonia anche la deformazione di una città che doveva diventare un moderno centro industrializzato, ed è, invece, rimasta dolorante, malinconicamente appesa alla sua antichità dorata. Il merito di questo libro non è solo quello di farci (ri)scoprire un’altra potente voce della linea poetica meridionale, su cui hanno scritto, tra gli altri, Giacinto Spagnoletti e Giorgio Caproni; ma anche quello di rinnovare l’affetto per Taranto, il simbolo della miopia, se non del fallimento, dello sviluppo industriale di una nazione.
STEFANO MODEO che ha curato l’opera, anch’egli poeta e tarantino, ci fa condividere un vero e proprio atto d’amore. Lungo, appassionato e difficile è stato il suo lavoro di recupero di testi ormai introvabili. Il risultato finale è di grande e duraturo merito.
«Chi parlerà di voi uomini rossi/ senza età senza bestemmie?/ Chi parlerà dei vostri Natali/ accanto alla ghisa lontano dai canneti/ ove vivono gli ultimi gabbiani?». Alla fine, qualcuno ha ricordato. Qualcuno ha parlato.
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