«A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata / A Vivaldi l’uva passa che mi da più calorie»: è facile, riascoltando Bandiera bianca di Battiato, andare con la mente a un’altra, non meno partigiana rivendicazione di gusti e simpatie, quella cioè consegnata da Pier Paolo Pasolini al rotocalco comunista «Vie nuove» nell’ottobre 1962. Rispondendo a un lettore che lo interrogava sul suo ruolo d’intellettuale posto di fronte al discorso della modernità, il poeta aveva infatti replicato con determinazione, sfoderando un tono insieme sfidante e cortese: «Mi lasci amare Masaccio e Bach, e detestare la musica sperimentale e la pittura astratta». Ci si potrà anzi esimere dal menzionare pure il testo – parimenti idiosincratico – di una hit diversa come Centro di gravità permanente, per comprovare la filiazione dell’un manifesto dall’altro, notando il gioco ironico del secondo: a tal punto il celebre proclama di Pasolini risuonò come un monito caparbio nelle orecchie dei suoi detrattori e in quelle degli estimatori (vedendosi riattivato, per così dire, dall’inclusione nell’antologia de Le belle bandiere, uscita nel 1977), da giustificare di per sé un’eco pervasiva, aperta a filiazioni inattese e a fraintendimenti non meno inspiegabili.
Certo, il nome di Battiato manca nell’indice del libro consegnato da Ara H. Merjian ai torchi dell’University of Chicago Press – Against the Avant-Garde Pier Paolo Pasolini, Contemporary Art, and Neocapitalism (pp. 304, 37 immagini a colori, 138 in b/n, euro 43,35) –, dedicato al dialogo difficile, conflittuale, intrattenuto da Pasolini con le avanguardie di questo dopoguerra, dall’Informale all’Arte povera, passando per la Pop Art e la cultura dell’happening: tuttavia lo studioso, arruolato alla New York University per la cattedra di Italian Studies, si prefigge di verificare come una tenzone talmente incandescente avesse previsto delle ‘code’, nella svolta stroboscopica verso la postmodernità, per mezzo di un’impropria digestione della tendenza al pastiche coltivata dallo scrittore, sia in letteratura che nel cinema.
È una chiave fondamentale per comprendere l’analisi di Merjian quella che sottolinea l’alterazione di una pratica siffatta in chiave di citazionismo ludico, affezionato all’utopia di un’eterna attualità delle parole e delle immagini: perché il senso del tempo, l’avvertimento doloroso della Storia è il fil rouge che si rintraccia, nel pensiero pasoliniano, attraverso posizioni polemiche spesso imposte da ‘oggi’ irriducibili, permeate dalle contingenze di presenti discordi, sottoposte – è opportuno ricordarlo – a un’evoluzione dialettica fra le più sfiancanti del panorama intellettuale italiano.
Non a caso molto si è detto sulla circospezione, sulla diffidenza anche, che caratterizzò il confronto di Pasolini con i principali linguaggi dell’arte europea e americana (e in particolare della pittura di quei due continenti) lungo il terzo ventennio del secolo; e altrettanto si è meditato su come all’unisono si componesse la sua dissonante reazione rispetto all’estetica di partito (formula con cui, è ovvio, si allude ai diktat del realismo di propaganda, caro alle tesi universaliste dello Ždanov e alla declinazione nazionale di quei principi, d’après Roderigo di Castiglia, durante gli anni cinquanta): il volume di Merjian è però cristallino nell’evidenziare quanto fra le premesse indispensabili a comprendere posizioni non sempre a prima vista conseguenti, in parte specchio di un discorso estetico in fieri e di uno Zeitgeist ancora opaco, sia necessario includere la prospettiva suggerita dallo storicismo materialista, le cui principali ragioni si rintracciano nelle note gramsciane consegnate ai Quaderni del carcere.
In questo senso appare chiarificatore il giudizio espresso dal poeta di fronte alla serie Ladies & Gentlemen di Andy Warhol, esposta nel ’75 a Ferrara e sulla quale Pasolini aveva scritto – prima di venire ucciso in novembre sul litorale di Ostia – un saggio inteso per aprire il catalogo della mostra: «è significativo per Warhol il 1945, e la parola Salò gli dice qualcosa?… La storia per Warhol può essere divisa? Può avere un momento in cui un suo modo di essere finisce e ne comincia un altro?… Può scorrere una linea divisoria tra gli uomini? E in particolare nelle loro coscienze? E più in particolare ancora nel terreno ideologico delle loro coscienze? C’è qualcosa che possa incrinare il ‘tutto unico’ che la mente dissacratrice dell’artista – per puro gioco – mette in discussione totalmente – deride o adora, venera o vanifica? Il fascismo può spezzare qualcosa in quel ‘tutto unico’? O al contrario, una rivoluzione marxista può, prima, separarlo attraverso quella opposizione fatale e totale che è la lotta di classe, e poi trasformarlo fino a farlo sparire?».
L’episodio è così rilevante che Merjian gli riserva una sezione centrale del secondo capitolo (mentre, di recente, un intervento scrupoloso di Del Puppo ha riannodato le strambe circostanze di una simile collaborazione fra ‘sconosciuti’, non essendosi il pittore e il poeta di fatto mai incontrati prima di allora); del resto non meno eloquente si rivela il dibattito sul formalismo, nella declinazione proposta da Pasolini e nella rilettura avanzata dalle teorie strutturaliste: ancora una volta il volume è incisivo nel distinguere moventi e conclusioni, ricorrendo – per gli esiti di pensiero dello scrittore – a una più ampia ma felice definizione di Fredric Jameson, volta a circoscrivere la «high-modernist ideology of style» rispetto alle novità concettuali degli anni sessanta-settanta.
Ficcante risulta quindi la disamina di un altro ‘testo’ molto dibattuto dalla scrittura consacrata al citazionismo pasoliniano e cioè la sequenza che, al cuore di Teorema, vede il figlio filiforme di Silvana Mangano (protetta da geometriche toilettes Capucci) contrastare la scomparsa dello Sconosciuto attraverso un esercizio furioso con tela e vernici, in un succedersi avvilito di stili e tecniche dal gestuale all’ossidazione, in anticipo documentato sull’esperienza dei piss paintings. Riconducendo la scena alla prassi pittorica del poeta (fino alle estreme esperienze di monocromi materici), la ricerca rinvia quei fotogrammi al dibattito – non meno acceso – che aveva caratterizzato la scena nazionale attorno alla nomenclatura in fieri dell’astrazione postbellica e si conferma filologica nel ricordare le fortune, gli usi di cataloghi come ad esempio quello di Franz Kline, da parte di figure diseguali e da campi opposti, fra Moravia, Bussotti e il Gruppo 63.
Oltre all’efficacia di tali commenti e accanto alla puntualità d’informazione, al curioso e sempre appropriato vaglio delle fonti (solo a tratti eccessivamente sintetico nel ricorso alla bibliografia secondaria), il libro offre spunti metodologici assai proficui. In questa direzione, valido si dimostra il rilievo riconosciuto a Pasolini in quanto ‘spettatore’, con riferimento alla sua presenza fra il pubblico della performance di Fabio Mauri, Che cosa è il fascismo, inscenata per la prima volta nel 1971 negli studi cinematografici Safa Palatino di Roma. Proprio una simile ‘funzione’ – rivendicata a più riprese dallo stesso Pasolini, anche in versi di ampio respiro come quelli del Picasso scritto nel ’53 – serve a costruire un panorama articolato attorno alla sua oeuvre poliedrica, problematizzandone le istanze e la persona carismatica rispetto a uno scenario fitto di comprimari e relazioni; démarche vantaggiosa per restituire ‘realtà’ a una vicenda intellettuale che nel corpo, negli oggetti, nelle circostanze concrete del quotidiano ha individuato un cardine ineludibile, una materia urgente e vitale.