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Pasini, un pittore per l’Oriente

Pasini, un pittore per l’OrienteAlberto Pasini, «Il bazaar»

Arte Alberto Pasini in mostra a Torino. Un artista parmense, di adozione parigino che scelse l'Orientalismo come sua cifra stilistica, non soltanto con cliché di maniera, ma viaggiando e vivendo dal «vero» le città considerate esotiche

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 22 marzo 2014

Nella prima metà dell’800, tra i paesaggi piatti e le foschie della Bassa Padana, il numero tredici dimostrò di non essere soltanto foriero di sciagure. Il 10 ottobre del 1813, a Roncole di Busseto, Parmense, nasceva Giuseppe Verdi. Tredici anni dopo, il 3 settembre 1826, a Busseto, apriva gli occhi Alberto Pasini. Il 9 marzo del 1842, Verdi mandava in scena il Nabucco, che lo condurrà a divenire compositore celebre in tutto il mondo. Il tredici aprile di tredici anni dopo, Alberto Pasini, a Suez, si imbarcava sul Mar Rosso, costeggiava la penisola arabica e raggiungeva Gedda. La mente e le mani di Verdi scorrevano sulla tastiera del pianoforte. La mente e le mani di Pasini scorrevano sulla carta e sulla tela. Ad unire i due artisti, seppure con occhi e intenti diversi, fu lo sguardo verso Oriente, terra che in quel secolo spronava la fantasia del mondo occidentale, rivolto al mito di Paesi ancora lontanissimi, selvaggi, misteriosi. L’Oriente: viaggio immaginato e metafora per Verdi, con Nabucco e Aida; viaggio vissuto per Pasini, tra Egitto, Sinai, Persia, Turchia, Palestina, Libano, Siria. I due si conobbero, senza che da ciò scaturisse una vera e propria amicizia. La vita portò l’uno a Milano e l’altro a Parigi, poi, nel corso del tempo, su rotte geografiche distanti e differenti. Ma se il primo dei due maestri non ha certo bisogno di presentazioni, del secondo, celebre nel suo ambito, occorre raccontare. Lo fa, dedicandogli per la prima volta uno spazio tutto suo, la mostra L’Oriente di Alberto Pasini, ospitata a Torino negli splendidi spazi del Museo della Fondazione Accorsi – Ometto. Lo facciamo noi, in queste pagine, per sottolineare, seguendo il filo di una corrente figurativa e letteraria che prese il nome di ‘Orientalismo’, il valore dei dipinti, degli schizzi, delle litografie alle pareti, delle fotografie d’epoca e dei documenti custoditi nelle vetrine delle bacheche, che costruiscono la passeggiata all’interno dello spazio espositivo. La Enciclopedia Treccani definisce così l’Orientalismo: «Atteggiamento caratterizzato da uno spiccato interesse e da una forte ammirazione per ciò che è orientale, per la civiltà e la cultura dell’Oriente. L’interesse formale e contenutistico rivolto alla cultura e agli usi orientali, rientra in senso generico nell’ambito dell’esotismo. In senso stretto, una forte corrente di gusto iniziò nei primi anni del Diciottesimo secolo in Francia con la pubblicazione delle Mille e una notte (1715). L’Oriente, oltre che fonte di studi scientifici o meta di viaggi, fu evocato come luogo di suggestive rovine, meraviglie ed esotiche bizzarrie. Ma assunse importanza di vero movimento artistico e letterario solo in epoca romantica, specie dopo le campagne napoleoniche in Egitto e in Siria (1798-99). Massimo esponente (pittorico, ndr) ne fu Eugène Delacroix; la sua influenza toccò Théodore Chassériau e portò alla formazione di un primo gruppo di orientalisti, fra i quali Alexandre Gabriel Decamps». Cui vanno aggiunti Eugène Fromentin e Alberto Pasini, accomunati agli altri da un particolare non proprio secondario: tutti, nei luoghi poi documentati attraverso le loro opere, in Oriente ci erano stati davvero. A differenza di tanti «colleghi» pittori che mai lo avevano visto e che, seguendo i canoni della moda del tempo, lo raffiguravano avvolto nella sensualità femminile, impenetrabile, colorato a tinte retoriche, ben più distante dei chilometri reali.

Delacroix, maestro assoluto, parte per il Marocco e l’Algeria nel 1832, al seguito di una missione diplomatica, realizzando poi un centinaio di dipinti. Riesce persino a ritrarre, seppur con molte difficoltà, le donne di Algeri, nel capolavoro Donne di Algeri nei loro appartamenti, del 1834. Di qualche anno dopo è Festa di nozze ebraica in Marocco. A Tangeri, precursore dei cahiers de voyages, riempie i suoi taccuini di schizzi che hanno come soggetto la gente e la città. Diversa la strada di Descamp, agli inizi pittore di genere senza alcuna conoscenza dei luoghi orientali, e poi, favorito da una serie di circostanze, cronista per immagini di un itinerario che lo porta a Costantinopoli, Smirne, in Asia Minore. Alexandre si dimostra fedele osservatore della vita e delle usanze quotidiane. Le abbozza, al pari di Delacroix, sul posto, per trasporle su tela al suo ritorno. Tra di essi la Casa turca, il Soldato della guardia di un visir, Uscita dalla scuola turca. Fromentin, giovanissimo, fa vela due volte verso l’Algeria, l’ultima nel 1859, unendosi a una missione archeologica. Anche lui produce bozzetti e schizzi sui taccuini. Sono segni precisi, accurati, dettagliati, che gli serviranno per dar vita a soggetti di un’esattezza vicina al realismo e alla documentazione di carattere etnografico. Arriviamo così a Pasini, forse l’unico italiano ad aver meritato un posto d’onore tra gli Orientalisti. Certamente il più celebre. La vita esordisce duramente nei confronti del piccolo Alberto. A due anni perde il padre, Commissario di Distretto di Maria Luigia di Asburgo Lorena, appena trasferito con la moglie e cinque figli in quel di Monticelli d’Ongina. La pensione tarda ad arrivare, le difficoltà economiche si fanno pesanti, e allora la vedova decide di andare a Parma, per trovare aiuto dalla propria famiglia e da quella del marito. A diciassette anni, Pasini si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Parma, dove si distingue per la diligenza nel frequentare il corso di paesaggio e per alcune opere, che vengono premiate. Il suo interesse si sposta verso il disegno, in particolare la litografia. Nel 1848 lascia l’Accademia, e un anno dopo partecipa alla Prima Guerra di Indipendenza, soldato della Colonna dei volontari di Modena. Quando il secolo compie la sua prima metà, Alberto realizza alcune litografie che riproducono le scenografie di Girolamo Magnano per il Trovatore e poi, sempre in litografia, le Trenta vedute di castelli del Piacentino, in Lunigiana e nel Parmigiano. Apprezzamenti e lodi non lo distolgono dal proposito che ha maturato: Parma gli va troppo stretta, andrà a Parigi. La partenza avviene nell’estate del 1852. Pasini porta con sé una lusinghiera lettera di presentazione del celebre incisore Paolo Toschi. Durante il viaggio si ferma due mesi a Torino, e qui conosce il marchese Ferdinando Arborio di Breme, che gli compra un quadro e aggiunge una sua lettera di presentazione a quella di Toschi. Il marchese è figura nota negli ambienti artistici parigini, cui Alberto accede grazie agli attestati di stima. L’editore Lemercier lo mette in contatto con l’incisore Eugène Ciceri, ben lieto di poter contare su un valido aiuto. I due diverranno amici e si ritroveranno sovente nella casa di campagna di Ciceri, ai margini del bosco di Fontainebleau.

Alberto-Pasini-Caravan-In-The-Desert

Nel 1854, il giovane litografo lascia il laboratorio per l’atelier di Théodore Chassériau. La pittura è ora al centro dei suoi interessi, e, fuori dal paesismo di maniera, Pasini ricerca un proprio linguaggio espressivo. Il grande cambiamento avviene a settembre dello stesso anno. Chasseriau declina l’offerta del ministro plenipotenziario Prosper Bourrée, che lo vorrebbe al seguito di una missione diplomatica presso la corte di Teheran. Propone il suo pupillo, ragazzo veloce nel disegno, bravo con i colori, abile nel ritrarre scorci e paesaggio. Bourrée accetta. Il viaggio della delegazione parte a fine febbraio 1855, ma la Guerra di Crimea, che vede l’alleanza tra Impero ottomano, Francia, Gran Bretagna e Regno di Sardegna contro l’Impero Russo, impedisce di navigare il Mar Nero fino a Costantinopoli, e da lì, via terra, arrivare in Persia. Soluzione più rapida, ma non attuabile. Unica e sfiancante alternativa è passare per l’Egitto, circumnavigare la penisola arabica e infine superare l’altopiano dell’Iran. La nave approda a Bushir il 6 maggio, e in carovana raggiunge Teheran il 2 luglio, tappe intermedie Shiraz, Persepoli, Pasargade, Isfahan, Qom. La lunga odissea offre a Pasini la possibilità di realizzare decine di disegni e schizzi, che poi trasformerà in dipinti. L’artista rimane ben dieci mesi alla corte dello Sha, seguendolo durante i suoi spostamenti nel Paese, partecipando alle cacce con il falcone, dipingendo su commissione per il sovrano, suo estimatore. Riceve anche un’onorificenza, l’Ordine del Leone e del Sole. L’itinerario che lo porta nuovamente a Parigi si conclude nell’agosto del 1856. Del suo primo viaggio, Alberto conserverà una nostalgia profonda e il desiderio, irrealizzabile, di un ritorno. A consolarlo è il successo delle opere realizzate tra il 1857 e il 1860: disegni e dipinti, cui si aggiungerà la serie di 12 litografie, l’addio alla tecnica figurativa degli esordi, intitolata Viaggio nell’Egitto, nella Persia e nell’Armenia in 12 vedute disegnate dal vero e litografate da Alberto Pasini, che le dedica alla propria madre Adelaide Crotti, per le edizioni Lemercier. I lavori verranno esposti al Salon di Parigi e alla Promotrice di Torino, e avranno il loro formidabile venditore nel mercante d’arte Adolphe Goupil, lesto a comprendere che quel pittore emiliano ma parigino di adozione è autore di pennellate orientaliste diverse. Nella biografia del catalogo della mostra, Giuseppe Luigi Marini scrive: «Gli stessi orientalisti genuini intendevano nettamente distinguersi dai molti colleghi, anche di fama, che, cavalcando la moda – i cosiddetti orientalistes en chambre (orientalisti da camera, ndr) – il Mediterraneo non lo avevano attraversato. Dipingevano harem e odalische, mercanti di tappeti, moschee e minareti nel proprio studio, sulla scorta di incisioni, fotografie e l’armamentario folkloristico di turbanti e narghilé… Pasini ribadirà implicitamente attraverso le sue opere ed esplicitamente nei suoi interventi scritti… la distinzione tra il suo essere orientalista, che nasceva dall’esperienza a pieno titolo, diretta, non solo di una conoscenza de visu e seguitata dei luoghi, ma del molto tempo trascorso in essi e in mezzo alla gente ‘vera’, interpretata e studiata nella vita di tutti i giorni, e la moda orientaleggiante, che surrogava la verità con invenzioni di maniera».

Pasini

Il Salon lo premia con una medaglia, appuntata al petto poco prima di partire in direzione dell’Egitto, a metà dicembre del 1859. È un viaggio che dura fino all’agosto del 1860. Alberto può lavorare con tranquillità, senza vincoli. Annota di nuovo Marini «… manifestando il proprio interesse non per le antichità di Giza, bensì per la vita quotidiana nella città: stradine, piazze e bazar animati dalla gente di tutti i giorni o da un corteo nuziale, scorci di minareti e, naturalmente, luminose e placide visioni del Nilo». Analoghi soggetti li ritrae anche a Beirut, Gerusalemme e Atene. Il terzo addio provvisorio a Parigi avverrà soltanto sette anni dopo, la barra del timone puntata su Costantinopoli. Nel frattempo Pasini sposa Marianna Celj. L’8 e il 17 di rue Duperré sono gli indirizzi di casa e dello studio. Nel gennaio del 1862 nasce Claire. La fama dell’Orientalista non convenzionale cresce: mostre, esposizioni, acquisti da parte di privati, premi. Costantinopoli, dove sbarca il 26 ottobre 1867, consacrerà la sua arte e porterà notevoli benefici economici, pur se, per certi versi, segnerà precisi confini creativi. Goupil rende, infatti, i soggetti turchi tra i pezzi più ambiti dal mercato, e su questi chiederà a Pasini di concentrare il proprio lavoro. Un lavoro che, adesso, si esprime nella sua pienezza. I colori, la luce, le situazioni e i momenti fermati sulla tela raccontano un Oriente meraviglioso e contraddittorio, povero e ricco, sporco e scintillante. E, proprio per tutto questo, vero. Alberto non lo ha mai tradito, mai ha accettato di scendere a compromessi, lo ama e lo sente dentro di sé. Tre ancora i viaggi a Costantinopoli, nel 1868, 1869 (a bordo del treno che sarebbe poi stato battezzato Orient Express) e 1873. Il quarto, deciso da un Pasini cinquantenne, si ferma a Vienna. La congiura che ha spodestato e ucciso il sultano Abdul Aziz gli sbarra il passo. Non sarà Parigi il domicilio definitivo, il luogo in cui Alberto lascerà il mondo a settantatré anni. I rapporti di lavoro e di amicizia lo avevano messo in stretta relazione con l’ambito torinese. Al Circolo degli Artisti di Palazzo Graneri, in via Bogino, e alla Promotrice, si respirava un’aria europea che il parmense-parigino amava molto. Grazie a Felice Biscarra aveva acquistato in Strada degli Alberoni, a Cavoretto, sulla collina, una villa di tre piani con giardino, frutteto, orto e una vista impagabile. Diverrà il suo buen retiro. Se ne sta ancora lì, purtroppo assediata da brutture edilizie concesse senza problemi negli anni ’60 e seguenti del secolo passato. Cavoretto (1879) è il titolo di un piccolo quadro che armonizza alla perfezione con l’esotismo realistico dei dipinti in mostra. L’amore per l’Oriente che Pasini trasfuse nelle sue opere, trovò identifica linfa nel ritrarre un’abitazione di campagna con il balcone invaso dall’edera. Il sole vivido, le ombre nette, la pietra del selciato grezza e consumata, le ritroverete qualche passo più in là, fermandovi, ammirati, davanti al Forno di Istanbul. Un viaggio non è mai questione di distanze. Ma di sensibilità.

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