Adolfo Balduini, «La picchiatura delle castagne», 1930/1940 ca., xilografia presente a casa Pascoli, Roma, Calcografia
Adolfo Balduini, «La picchiatura delle castagne», 1930/1940 ca., xilografia presente a casa Pascoli, Roma, Calcografia
Alias Domenica

Pascoli, un soggetto familista pronto per Bellocchio

Letteratura e cinema Ventenne a Bologna; in clausura domestica a Castelvecchio, infine nazionalista (1911): la sceneggiatura di Vincenzo Consolo per un film mancato sulla vita di Pascoli pubblicata dalla Fondazione Mondadori
Pubblicato circa un mese faEdizione del 20 ottobre 2024

E’ conservato nel Fondo Consolo, in deposito presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, il mano- e dattiloscritto di un Soggetto compiuto e di una parziale Sceneggiatura relativa a un progettato e mai realizzato film per la Rai sulla vita di Giovanni Pascoli.

Al principio degli anni ottanta, regista avrebbe dovuto esserne Marco Bellocchio, da sempre lettore di Pascoli, con la collaborazione di Vincenzo Cerami: del cross country preventivo di entrambi si è avvalso Vincenzo Consolo come ora testimonia il volume «Una dolorosa immobilità» La vita di Giovanni Pascoli in una sceneggiatura interrotta (con uno scritto inedito di Marco Bellocchio, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, pp. 203, € 24,00) che esce nella puntualissima curatela di Gianfranca Lavezzi e Federica Massia riunendo il Soggetto, la Sceneggiatura e un recente flash pascoliano di Bellocchio, Zvanì (2018), oltre a un suo disegno che rammenta il progetto di un corto mai girato e dal titolo persino fatale, La cavallina storna.

Ciò che interessa a Bellocchio è il familismo di Pascoli, dal trauma infantile per l’uccisione del padre al nido domestico ricostruito insieme alla sorella Mariù (transfuga invece l’altra, Ida, la «traditrice»), dentro un universo claustrofilico dove ha luogo per decenni un ménage certamente casto ma etimologicamente incestuoso.

Utilizzando le memorie dei contemporanei (quelle fra gli altri dell’apologista bolognese Giuseppe Lipparini ma soprattutto del monumentale dossier biografico di Mariù, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, 1961, nel cui micidiale candore Alberto Arbasino riconoscerà un talento à la Ivy Compton-Burnett), il Soggetto è diviso in tre parti: una prima parte ambientata a Bologna intorno al 1876 che vede Giovannino dividersi tra il magistero di Carducci e la frequentazione di Andrea Costa e degli internazionalisti che gli costerà tre mesi di carcere a San Giovanni in Monte; una seconda parte invece dedicata proprio agli anni di clausura domestica a Castelvecchio tra la presenza occhiuta di Mariù, il ricordo atroce di Ida fuggitiva e le tre scrivanie per scrivere rispettivamente Myricae, Catullocalvos e Minerva oscura; la terza parte infine che riguarda l’ufficioso contendente di d’Annunzio, cioè tanto il vate alessandrino che detta i Poemi italici quanto l’ex socialista umanitario divenuto nazionalista che, in occasione della guerra italo-turca nel 1911, ormai in punto di morte tiene il celeberrimo e poi famigerato comizio La grande proletaria si è mossa.

Insomma, come nota puntualmente Lavezzi, è un «progetto della Vita di Pascoli che invece è completo e anche molto dettagliato, e contiene tutti i motivi principali della vita pascoliana» rispetto alla Sceneggiatura che ha modo di sviluppare soltanto la prima parte per il precoce venir meno del progetto stesso: Bellocchio, nella lettera alle curatrici collocata in appendice, spiega la defezione con la paura di replicare il suo film precedente, Salto nel vuoto (1980), la storia di due fratelli, scrive, che dormono in due camere da letto «divise da una sottile parete (come se dormissero insieme) proprio come quelle di Giovanni e Maria…».

Resta che l’eterno motivo del cinema di Bellocchio, fin dal folgorante esordio de I pugni in tasca (’65), vale a dire la famiglia come endiadi tra dentro e fuori (tra luogo di protezione e nucleo concentrazionario), è tangibile anche nella Sceneggiatura che Consolo riesce ad approntare dove, appunto, il giovane poeta è lacerato tra il richiamo per lui velleitario dell’Internazionale e il rifugio che a lui capo-famiglia prospetta il ritorno di Ida e Maria dal collegio.

La trafila biografica si interrompe nell’imminenza della nomina al Liceo-ginnasio di Matera che segna l’inizio della carriera scolastica del Pascoli.

Prevalgono gli interni nella Sceneggiatura, in una dialettica di spinte centrifughe (il rapporto con i compagni di Romagna, la cella di San Giovanni in Monte) e ritorni centripeti al piccolo mondo di cui fanno parte i familiari ma presto anche i sodali della cerchia carducciana, laddove è memorabile in particolare la scena immaginata nella Trattoria del Foro Boario – a porta Mazzini, un passo da Casa Carducci – quando il poeta vive un lungo attimo di indecisione tra il sedersi al tavolo dei vecchi compagni o a quello del Maestro, di Severino Ferrari e degli altri allievi.

(La scelta è quasi scontata pure se al familista e nazionalista Giovanni Pascoli capiterà negli anni tardi di scrivere, ad esempio, un’accorata epigrafe per Francisco Ferrer, pedagogista anarchico, fucilato nel 1909 dalla Guardia Civil: tuttora poco noti, quei versi sono scolpiti in una lapide davanti alla stazione ferroviaria di Senigallia).

Ma chi è dunque il Pascoli di Bellocchio, di Consolo e Cerami? Non è tanto il rivoluzionario della lingua e dello stile di cui ha trattato una ventina di anni prima il saggio di Gianfranco Contini e, di riflesso, le pagine militanti di Pier Paolo Pasolini che inaugurano «Officina» (1956).

Piuttosto, questo Pascoli cinematografico è l’esemplare psicologico e sociologico di cui si occupano, fra gli anni sessanta e settanta, almeno due esponenti della neoavanguardia.

Innanzitutto Edoardo Sanguineti, prima in un saggio incluso in Ideologia e linguaggio (’65) poi nella sua edizione einaudiana dei Poemetti (’71) in cui scrive un referto squisitamente politico della claustrofilia e di quello che chiama l’Homo pascolianus ovvero un self made farmer che ha il sogno «di una società di eguali in diritto, liberi e sovrani entro il recinto delle proprie barriere di ‘possidentucci’ accomunati dalla sperimentazione pateticamente fraterna delle gioie e sofferenze umane»: Sanguineti infatti ne conclude che la poesia è l’oppio della piccola borghesia.

Comicamente efferate sono viceversa le pagine di Arbasino ne La Belle Époque per le scuole che illustra la seconda edizione di Certi romanzi (’77), uno dei suoi testi più felici. Qui (e basterebbe il titolo del capitolo, Cip-cip…) Giovannino è il poeta che «si attribuisce tutta la frugalità borghese del presente (…) uno che si contenta e non gode» se non in «cupi giochi pre-puberali protratti fino alla soglia della cirrosi epatica» e in una «macabra saga casalinga con cannibaleschi risultati», la cui sola ideologia può essere: «Ciascuno nella propria casetta, con tante siepi ben solide fra ogni poderetto e campicello».

Tant’è che più avanti (la sua prima edizione Mondadori delle Poesie famigliari data 1985) anche un assoluto intenditore, peraltro avverso alla neoavanguardia quale Cesare Garboli, potrà parlare dell’Homo pascolianus come di un piccolo borghese prototipo del fascista.

Ma quanto emerge dal Soggetto e annessa Sceneggiatura è più che altro un reduce, un profugo dalla vita e dalla politica, «un’ape tardiva» per sempre fuori dall’alveare, come il poeta disse di sé in uno dei suoi versi più famosi. Il Bellocchio del 1980, dopo gli anni dell’antagonismo, sente montare il riflusso e pensa istantaneamente al suo Pascoli. In proposito, non potrebbe avere coadiutori più indiziati, perché Consolo ha pubblicato quattro anni prima Il sorriso dell’ignoto marinaio, estrema occorrenza della funzione-Gattopardo, e nello stesso anno Vincenzo Cerami, con Un borghese piccolo piccolo, ha individuato i primi segni di una mutazione antropologica. Perciò Pascoli, questo Pascoli, può essere il nome provvisorio di qualcosa che a quella data non ha ancora un nome.

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