Visioni

«Parthenope», l’incantamento spudorato della bellezza

«Parthenope», l’incantamento spudorato della bellezzaCeleste Dalla Porta in una scena di «Parthenope» – foto di Gianni Fiorito

Al cinema Il nuovo film di Paolo Sorrentino, già in concorso a Cannes. Napoli fra leggenda, mitologia e tragedia; un immaginario da rifondare

Pubblicato 4 giorni faEdizione del 24 ottobre 2024

A Cannes era arrivato con le aspettative che circondano ogni film di Paolo Sorrentino, forse deluse da reazioni e commenti non entusiasti. Eppure Parthenope, che arriva ora in sala, dopo numerose anteprime, è tra i film del regista napoletano uno dei più interessanti anche per come scopre le sua carte e dichiara spudoratamente le sue ossessioni. Un film immaginifico come sempre è Sorrentino che ama le iperboli, i pieni e le folgorazioni, che snocciola fantasmagorie, credenze popolari, stereotipi, storia e presente lungo oltre settant’anni, in cui l’autore – sua la sceneggiatura – ritrova la luce morbida di Daria D’Antonio, e Napoli come nel precedente È stata la mano di Dio esasperandone l’ iconografia.

A QUELLA della città si intreccia l’esistenza di una donna che ne attraversa le mutazioni, ne cerca i misteri, se ne lascia avviluppare ma solo per fuggire lontano. Si chiama Parthenope come la sirena della giovinezza, come la leggenda da cui si dice sia sorta Napoli. È nata nel mare davanti alla villa di famiglia, bellissima, amata, desiderio impossibile, fantasia irrequieta in fuga da sé, dai rimorsi, dai luoghi, dall’amore. Il futuro è imprevedibile, troppo grande per noi dirà al primo amante (Dario Aita).

Parthenope va veloce, è determinata nei dolori e negli istanti di felicità, e affronta i rischi dei ritratti femminili nello sguardo del maschile che si impigliano fra i suoi stanchi fantasmi, che sublimano e insieme intrappolano. Si può essere geniali, ribelli e felici da qualche parte nel quotidiano, non per forza condannate alla solitudine pure se donne curiose, profonde, indocili, come Parthenope ma è, appunto, questione di punti di vista –il cinema o la narrazione lo sono. «Era già tutto previsto» graffia la voce di Cocciante in una danza d’estate. E se fosse questo il punto?
Chi è allora Parthenope affidata alla grazia luminosa di Celeste Dalla Porta (da anziana Stefania Sandrelli), che Sorrentino accarezza con la sua macchina da presa senza mai perderla un istante? Se non è Napoli né il suo doppio, è forse un possibile controcampo? Potremmo spingerci più in là e dire persino che vi si cela il regista, o almeno la sua ambizione di «(ri)fondare» fellinianamente l’immaginario napoletano.

Parthenope ha un fratello un po’ più grande, Raimondo (Daniele Rienzo), fragilissimo a cui ruba il letto a forma di carrozza che il padrino (Alfonso Santagata) gli aveva regalato. Lei legge, studia, è intelligente, adora i libri di John Cheever, suo fratello rimane sempre un passo indietro. La guarda con adorazione, un amore che intreccia il desiderio per lei a quello del loro amico, come nella mitologia degli dei.
Perché leggi cose tristi chiedono alla ragazza gli adulti, che non capiscono come sia possibile tanta serietà in tanta bellezza. A Capri Parthenope arriva con fratello e amico, tre outsider, belli, giovani, sfacciati. Lei ruba gli occhi di tutti, incrocia i passi dell’amato Cheever con le sue molte bottiglie (Gary Oldman): è fantasia? È reale? Sono i sogni di una spensieratezza adolescenziale destinati a finire in fretta nell’età adulta del dolore? La notte è una danza di baci scatenata e di dolcezza, ma appunto «era già tutto previsto». Il fratello si spezza e vola via nella spuma del mare. La famiglia si perde in una strana follia. A Parthenope rimangono i libri, e quel professore all’università (Marotta un nome che è storia napoletana) austero e severissimo Silvio Orlando a cui chiede: cosa è l’antropologia? Imparare a vedere sarà la laconica risposta, entrambi anime ferite che si riconoscono.

Intanto Napoli cambia, il colera, il ’68, il terremoto, lo scudetto. La camorra permea la città e pure Parthenope,e nei vicoli di miseria diventa padrona. Ma lei vuole vedere – come le ha insegnato l’amato professore. Scoprire un volto nascosto di una antica bellezza agente di star distrutta dal botox (Isabella Ferrari) e ciò che cela la diva erotica piena di rabbia contro la sua città (Luisa Ranieri). Altri frammenti di un femminile schiacciato dalla propria immagine. Vedere, come conoscenza. Vedere non solo guardare. Il potere del cinema, delle immagini.

È VERO il miracolo del sangue di San Gennaro? Non si scioglie, il vescovo (Peppe Lanzetta) impazzisce, faranno sesso lui e Parthenope e lì nella bellezza di lei quel sangue diverrà liquido. Ironia? Commedia? L’ennesimo fantasma?
E allora che suggerisce questa vita di fantasmagorie che proiettano lo sguardo dell’autore? Incantamento e tragedia. La realtà e la sua negazione. Sorrentino avanza in questa Grande bellezza napoletana accumulando stupefazioni. Convoca il teatro napoletano – e non solo per i molti attori che fanno parte del cast – di una rappresentazione secolare giocando con gli involucri più che nelle profondità per scrivere la propria immagine fatta di assoluti, di effetti e accumuli che non fanno respirare, di composizioni ricercatissime. Fino al finale che non vedremo in cui questo innamoramento per la bellezza – che fa rima con giovinezza, come era già in Youth – rivela il suo cinismo soffermandosi sul viso di Parthenope adesso, privata di quella seduzione potenza della gioventù. E il tempo la inchioda, anche lei come gli altri, una ripicca o una vendetta? Chissà. Rimane a noi immaginarlo.

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