Visioni

Parrucche volanti e velluto blu, il nuovo Devendra Banhart

Parrucche volanti e velluto blu, il nuovo Devendra BanhartDevendra Banhart – foto di Dana Trippe

Note sparse Prodotto in coppia con Cate Le Bon, «Flying Wig» è un album bipolare, atteso dalla prova del palco

Pubblicato circa un anno faEdizione del 4 ottobre 2023

Era ora che lavorassero insieme, dopo un lungo corteggiamento a distanza parlato in una lingua di tatuaggi e tagli di capelli homemade, flirtando attraverso i titoli delle rispettive opere prime (Oh Me Oh My esordiva lui, Me Oh My ribatteva lei). Ce n’è voluto, insomma, prima che Devendra Banhart e Cate Le Bon si ritrovassero tra i corridoi virtuali della Mexican Summer, etichetta alla quale il cantautore venezuelano-statunitense è approdato dopo un decennale rapporto con Nonesuch. «Cate è l’unica persona con cui volevo fare questo disco. Volevamo un suono nuovo, elettronico ma allo stesso tempo caldo e organico, volevamo tirare fuori ed enfatizzare l’aspetto emotivo di un sintetizzatore», ha dichiarato Banhart, sottolineando la componente emblematica di quel vestito blu preso in prestito dalla musicista e produttrice gallese, indossato durante la lavorazione «per riscattare la mia energia femminile».

Tappeti sintetici, riverberi e delay anni ottanta rivestono le canzoni

INUTILE, invece, cercare nella musica ricadute simboliche del luogo che ha fatto da sfondo alle registrazioni, quella baita nel Topanga Canyon in cui già Neil Young si era rifugiato nel 1970 per After The Gold Rush: l’atmosfera di questo Flying Wig è molto più distopicamente urbana che non bucolica. Ed è forse questa la vera impronta della Le Bon, che del linguaggio di Devendra va a potenziare l’elemento elettronico, arredando la baita con tappeti sintetici, riverberi e delay anni Ottanta. Il tutto riflesso allo specchio di Haruomi Hosono, ulteriore invito a guardare a est, punto cardinale del Banhart che si ispira al poeta buddista Kobayashi Issa e compone Nun alle pendici dell’Himalaya; salvo bilanciare quei colpi di batteria parecchio sincopati con un refrain talmente occidentale da ricordare i Cream di Strange Brew.
È uno dei tanti accostamenti inconsueti dell’album, che rispecchia le due anime produttrici puntando talvolta all’hook — melodico in Charger, ritmico in May e Twin — talaltra all’essenzialità elettronica e downtempo di Feeling e The Party, in apertura e chiusura dell’album. Un dualismo capace il più delle volte di cogliere nel segno, ma che nei momenti più minimalisti denota una certa opacità d’intenti.

CHE SIA uno di quegli album di passaggio che attendono la prova del palco per maturare pienamente? Il tour in partenza, che farà tappa all’Auditorium Fondazione Cariplo di Milano e al Politeama Rossetti di Trieste tra 21 e 22 novembre, ci dirà se la performance dal vivo sarà maggiormente improntata all’interplay con i musicisti — Nicole Lawrence alla pedal steel e alla chitarra, Todd Dahlhoff al basso, Greg Rogove alla batteria e Euan Hinshelwood al sassofono — e se al nuovo Devendra Banhart il vestito blu di Cate si addice anche in scena.

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