Visioni

Parole sulla guerra. La tragedia della vittoria

Parole sulla guerra. La tragedia della vittoriaUna scena del documentario, sotto la regista Mor Loushy

Intervista «Censored voices» di Mor Loushy raccoglie le testimonianze di soldati della Guerra dei sei giorni. Storie ben diverse da quelle raccontate dal governo israeliano

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 4 marzo 2015

Nella narrativa ufficiale, il 1967 è l’anno in cui Israele ha celebrato la sua più grande vittoria: con la guerra dei 6 giorni non ha solo respinto le truppe di Siria, Giordania ed Egitto intenzionate ad annichilire la giovane nazione, ma ha triplicato le proprie dimensioni, annettendo anche la città vecchia di Gerusalemme; secondo molti, liberandola. Ma «chi ha liberato cosa? Io credo nella gente, non nei posti». A dire queste parole è lo scrittore Amos Oz, e non nella sua veste di noto esponente della sinistra israeliana, ma come soldato appena tornato dalla guerra dei 6 giorni. E continua infatti così: «mi sentivo come uno straniero in terra straniera, per questo l’espressione territori liberati mi terrorizza».

Censored Voices della trentaduenne Mor Loushy, presentato a Sundance 2014 e di recente passato anche a quello di Berlino, raccoglie la sua testimonianza insieme a quella di decine di altri soldati appena tornati in pompa magna dal fronte, che per iniziativa dello stesso Oz e di Avraham Shapira vengono registrati mentre si raccontano a vicenda le loro reali impressioni sulla guerra. «Il progetto è iniziato anni fa – racconta Loushy – quando stavo facendo il Master in storia all’Università, ed ho scoperto un libro completamente sconosciuto per me: The Seventh Day di Avraham Shapira, che è stato pubblicato tre mesi dopo quella guerra. È un libro profondamente pacifista, e mi è sembrato pazzesco che la mia generazione non lo conoscesse. Per cui ho cominciato a fare delle ricerche, ed ho scoperto che riporta solo una piccola parte delle conversazioni: nel ’67 la censura israeliana lo ridusse del 70%, ed io volevo assolutamente trovare le registrazioni complete. Così sono arrivata ad Avraham, che per tutti questi anni ha tenuto i nastri nel suo sgabuzzino».

Vedendo il film, non è difficile comprendere come la censura di un paese pur da sempre professatosi democratico si sia abbattuta con furia sui racconti di queste persone: mentre la nazione intera celebrava i suoi eroi e la sua conquista della «completezza» con l’annessione di luoghi sacri all’ebraismo, gli stessi protagonisti di quell’impresa raccontavano una storia molto diversa e presagivano un futuro ben poco radioso in cui, come dice uno di loro, «avremmo presto dovuto indossare di nuovo le nostre uniformi».

«Ovviamente – continua infatti la regista – non è solo un film sul passato ma sulla nostra realtà attuale, sui giorni in cui viviamo. Uno dei soldati dice che uno stato di guerra perenne può distruggere una nazione, ed io credo che sia l’assoluta verità. L’occupazione costante ci ha corrotti, tutte le opportunità di pace che abbiamo avuto nel corso degli anni sono svanite ed è impossibile vivere così. Ora mio figlio ha due anni e mezzo, e non posso immaginare che quando ne compirà 18 lo dovrò veder entrare nell’esercito.

Dobbiamo rompere questo circolo di sangue, provare a raggiungere una soluzione pacifica, altrimenti non vedo un futuro né per noi né per i palestinesi».
Accompagnate da immagini d’epoca e dai volti dei «protagonisti» che riascoltano oggi le loro parole di allora, le registrazioni svelate da Censored Voices raccontano di una vicenda che Loushy definisce come «cancellata dalla narrazione e dalla storia israeliana»: oltre all’orrore della guerra, il terrore di «essere malvagi», la presa di coscienza che dal ruolo del debole Davide contro il gigante Golia si era passato a quello dei forti – come raccontano gli stessi soldati – e magari degli oppressori.

4morlushi3478845_2048_1152

Ciò in cui le loro osservazioni quasi sempre concordano è che, partiti per una guerra per la loro stessa esistenza, si siano ritrovati a combattere per qualcosa di ben diverso. «Queste cose succedono in tutto il mondo – osserva la regista – le persone decidono di combattere per una causa ed improvvisamente si trovano a farlo per qualcos’altro, ed è per questo che Censored Voices verrà proiettato in così tanti paesi: perché accade ancora oggi e riguarda il rapporto tra una nazione ed i suoi abitanti».

Una storia universale e al contempo profondamente israeliana, che proviene da un altro tempo: «io sono giovane e di sinistra: non è la mia storia, non è il mio sguardo critico su quegli eventi dall’esterno. È lo sguardo di quelle stesse persone che hanno costruito il Paese, combattuto in quella guerra». È la ragione per cui la regista decide di non far sentire la sua voce e la sua presenza. La si avverte brevemente solo all’inizio ed alla fine del film, così come solo per poco ci fa sentire quello che gli ex soldati hanno da dire oggi.
«La mia voce al principio serve a dare una prospettiva sui 47 anni trascorsi da allora. Ma poi mi ritiro perché è la loro storia, al cui interno non vedevo me stessa. E credo che sia la stessa ragione per cui non si vedono i protagonisti parlare: non è un film sulla nostalgia, ma su delle persone che parlano all’oggi».

Censored Voices uscirà in Israele a maggio ed avrà una distribuzione sia cinematografica che televisiva. «Non è un film semplice – sottolinea Loushy – sono sicura che solleverà voci di varie militanze, ma la trovo una cosa positiva». Infatti, prosegue: «spero che consenta di iniziare un dibattito pubblico e ci dia i mezzi per renderci conto del dolore degli altri, del bisogno di pace. Tra poco torneremo a votare: non sono ottimista, ma non credo neanche di avere il diritto di essere pessimista; devo continuare a fare di tutto per un futuro diverso e migliore, di pace, con un governo di sinistra. Se non crediamo nel futuro perché dovremmo batterci per restare in Israele?». La necessità è di ripercorrere e rileggere con occhi diversi l’epica della nazione, altrimenti: «siamo diretti in un posto terribile – osserva nel film Amos Oz – una società che non vuole confessarsi la verità». E la verità, per la regista, è che «questo è un film sulla tragedia della vittoria: abbiamo tutti perso, e continuiamo a perdere tutti i giorni. Quella che è stata passata come la più importante vittoria di Israele, per me e molte altre persone, si è rivelata la più grande sconfitta di tutte».

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.



I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento