Una donna di 31 anni presentatasi come «magra», ha scritto a Pamela Stephenson Connolly titolare di una rubrica del «Guardian», per dire che è attratta da uomini più anziani di lei e obesi che «più brutti sono tanto meglio è». Fantastica che diversi uomini di questo tipo la «girino» l’uno all’altro. La eccita «l’idea di alzare i loro stomachi per cercare i loro peni che è sempre difficile trovarli e sono un po’ nel loro lato morbido». La giovane donna, che ha una buona vita sessuale, si fa aiutare da questa fantasia per avere l’orgasmo. Tuttavia si sente colpevole e malata per cui non si è mai confidata col suo uomo.

La posizione di Stephenson Connolly, psicoterapeuta specialista nel trattamento dei disordini sessuali, è rassicurante: le fantasie sono private e la lettrice non è obbligata a condividerle con altri; non sono il prodotto di una mente malata ma «un esercizio creativo progettato per alleviare paure sessuali e un’immagine negativa del corpo». Avviatasi sulla strada dell’approssimazione la specialista offre una sua teoria sulla genesi della fantasia della sua interlocutrice: «Gli uomini immaginati non sono pronti per far sesso. In qualche modo tu hai sviluppato un’eccitazione che ti tiene al sicuro cosicché nonostante sei “girata” tra di loro continui a mantenere il controllo. Può essere anche che la loro bruttezza ti aiuti a sentirti salva e sollevata dall’ansia di essere giudicata fisicamente tu stessa». Pur tenendo conto dei limiti della consulenza a distanza e della necessità di una certa generalizzazione che consente a un esperto di comunicare con i tutti i lettori del suo giornale, è difficile non restare colpiti dalla banalità delle risposte date. Tra gli «esperti della psiche» e i loro «utenti» si sta realizzando un cortocircuito che annulla l’efficacia della loro comunicazione. Al disagio si risponde con parole che servono a far sentire le persone che soffrono al sicuro, a tenere la situazione sotto controllo. Nulla è più rassicurante che usare parole e idee che sono di tutti, sguazzare nei luoghi comuni e nelle frasi fatte. «Basta che se ne parli», sembrerebbe essere la tendenza in voga, perché poi funzioni ci pensa la divina provvidenza. La «talking cure» (la cura che parla), espressione inventata da Anna O. paziente di Breuer (amico di Freud e autore con lui degli «Studi sull’isteria»), non è un «parler pour parler»: dà parole alla sofferenza del desiderio, le offre la possibilità di un senso condiviso che, per prima cosa, destabilizza un discorso sociale impersonale che della sofferenza non sa rispondere e non sa cosa farsene e lo obbliga a riformularsi. Dire che non siamo obbligati a condividere le nostre fantasie private con gli altri è solo un’ovvietà che serve a silenziare la domanda della lettrice del «Guardian»: la comprensione del senso di colpa che le impedisce di stabilire un’intimità vera con il suo uomo. Attribuire poi carattere di progetto creativo a una fantasia ripetitiva e statica in cui la protagonista cerca di tenere a bada, trasformandola in eccitazione, una situazione di sopraffazione da parte di uomini «brutti» (non desiderati) significa ignorare la sua difficoltà di sognare liberamente, a occhi chiusi o aperti, l’incontro con l’altro desiderato. La cosa veramente importante in questa fantasia, di cui si vede solo la superficie, è il punto in cui può aprirsi alla vita: il desiderio che persiste nella ricerca del suo oggetto al di là dei suoi aspetti sgradevoli e manipolativi (con il loro carattere sconfinante, eccessivo) e nonostante l’eccitazione che si prova a resistergli rendendolo mansueto, inoffensivo.