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Parker, la guerra differita e reversibile

Parker, la guerra differita e reversibileCornelia Parker, "Cold Dark Matter: An Exploded View", 1991

Le immagini della guerra: Cornelia Parker La «War Room», del colore delle fiamme e del sangue; un’esplosione con le sue ombre, uguale a quelle di conflitti interminabili... Una mostra a Londra, Tate Modern

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 21 agosto 2022
Cornelia Parker, “War Room”, 2015

Una stanza rossa, la stanza della guerra. Cornelia Parker, artista britannica, generazione di mezzo tra i Young British e Kapoor, crea nella sua mostra alla Tate Britain – curata da Andrea Schlieker con l’assistenza di Nathan Ladd e visitabile fino al 16 ottobre – un vero luogo di raccoglimento dalla potenza calamitante.
In War Room vieni subito avviluppato dal calore del rosso che ti offusca, ti galvanizza, ti infiamma, poi, più indugi in quella sala, più metti a fuoco nel vermiglio intenso il solo colore delle fiamme e del sangue. Una stanza composta unicamente dal rivestimento di smisurati fogli sovrapposti, usciti dalla rotativa, sui quali risaltano, a uguale distanza e in doppio negativo, milioni di sagome scontornate di papaveri dalle stesse dimensioni. Questi piccoli rosolacci, i cui proventi vengono devoluti alle famiglie degli scomparsi, sono destinati a decorare senza alcuna distinzione abiti o baveri di umili e potenti nel ricordo dei caduti della prima guerra mondiale e di chi, in senso più ampio, ha offerto alla patria la propria vita in battaglia. Un segno forte, usanza molto antica che viene fatta risalire a Gengis Khan del quale si narra che facesse spargere i semi di quel tanto fragile quanto splendente fiore sui campi dove, con onore, erano periti in combattimento i suoi nemici. E quella stessa pianta erbacea spontanea che in primavera ricopre e tinteggia con i suoi delicati petali le distese di grano è diventata emblema della memoria nella ricorrenza dell’armistizio che ha segnato la fine della sanguinosa guerra del 1914-’18, l’11 novembre, giorno in cui i paesi del Commonwealth ricordano i loro morti in guerra. Non, quindi, nell’oppiaceo oblio ma nel nome della libertà degli ideali e della consolazione.
Con un atto di estrema sensibilità, di garbo e forza allo stesso tempo, Cornelia Parker riesce a superare la soglia di un allestimento minimale caricando di emotività l’involucro cromatico senza cedere a ermetiche simbologie ma semplicemente creando un leggero scarto tra il pieno dell’imporporarsi sanguigno e il vuoto degli stampi che alludono a dolorose assenze. «Ho deciso di realizzare War Room – afferma l’artista dopo aver ricevuto l’incarico per un lavoro sulla prima guerra mondiale e aver visitato la fabbrica di Richmond – a mo’ di tenda, sospendendo il materiale come fosse tessuto. La stanza è ispirata al superbo padiglione che Enrico VIII fece innalzare per l’incontro di pace con il re francese nel 1520 e noto anche come il Campo del Drappo d’Oro. Circa un anno dopo erano di nuovo in guerra». Su questo registro è orchestrata tutta la mostra, come in realtà gran parte del lavoro dell’artista inglese. Trasformare cioè in materia subliminale un’azione che mostra di per sé un primo aspetto provocatorio e riconvertirla nella forma improvvisa di un’immagine di rinascita e meraviglia.
Se nell’impercettibile opposizione di significati si riaccendono i sensi nella stanza della guerra, anche le altre sale parlano con rigore e sublime equilibrio di una trasfigurazione degli oggetti selezionati attraverso una logica precisa, associata a un’altra analogamente chiara ma in apparenza distante dalla prima. Appena colta la relazione tra concetti o elementi, il corto circuito iniziale, da repentino disorientamento si tramuta in globale intuizione della rappresentazione. Sulle tracce di quella categoria teorizzata da Marcel Duchamp dell’inframince o infrasottile dove l’intervallo o la minima differenza tra due fenomeni molto distanti, messi tra loro in relazione, sprigiona un senso di inatteso e di sorpresa.
Cosa è più banale di una serie fotografica – Avoided Objects – di cumuli e cirri in cielo? Ma se scattate con la macchina di Rudolf Höss, ufficiale comandante del campo di concentramento di Auschwitz, sopra l’Imperial War Museum, quelle foto perdono di banalità e narrano qualcosa di molto più sinistro. Ecco che quell’apparenza serena e naturale, seppure offuscata dalla pellicola a infrarossi, viene intorbidita da una storia svelata solo dalla didascalia e dalla caparbietà con la quale Cornelia Parker nel 1999 ha ottenuto di usare lo strumento con cui Höss ritraeva la sua famiglia per mostrare quel confine così impercettibile e indecifrabile che separa bellezza da orrore. «Catturare nuvole era un modo per sviare la mia attenzione dal fatto che stavo guardando attraverso lo stesso obiettivo di un assassino di massa».
E ancora, un fucile a canne mozze segato e spezzettato dalla polizia in numerose parti ed esposto in modo tale da perdere la dimensione e l’immagine dell’oggetto ridisegnabile nella mente dell’osservatore soltanto attraverso la descrizione del lavoro, Up Sawn Off Shotgun. Ma anche l’arma di un omicida, tramutata in ruggine attraverso un processo chimico, persa la sagoma originaria, mantiene invece nel residuo – Precipitated Gun – la memoria del suo trascorso e della macabra funzione.
Prima donna artista scelta dal comitato che seleziona le opere per il Parlamento inglese, il suo coinvolgimento tocca la sfera sociale nel suo attivismo contro il cambiamento climatico. Nella nuova scultura, Island, realizzata per la conferenza delle Nazioni Unite e presentata alla Tate in anteprima, Cornelia Parker inventa una serra di vetro tratteggiata all’interno da colpi di gesso di Dover per rappresentare l’incerta situazione della Gran Bretagna dopo il Brexit. «Il gesso bianco scaglia oscure ombre moiré sul muro. Quello che è bianco diventa nero e quello che era sicuro è ora mutevole, carico di grande apprensione».
Colpisce il discorso politico: un ragionamento giocato con metafore e differimenti di senso, innescato da una spettacolare azione distruttiva a sottintendere l’idea di una perenne instabilità, dell’impossibilità di uno stato di quiete. Come alla guerra può subentrare la pace, così la reversibilità di quel momento può avvenire velocemente rovesciando lo scenario nella realtà opposta. Che Cornelia Parker parli così tanto di scontri nel suo lavoro rivela, attraverso i molteplici mezzi usati, dal disegno alla scultura, dal film al ricamo, alla fotografia e al coinvolgimento di altre persone o figure professionali, il suo impegno e la straordinaria capacità di accendere attraverso l’arte una riflessione mediante l’energia compressa che le opere effondono.
È il caso di Cold Dark Matter: An Exploded View, una spettacolare installazione, illuminata dall’interno, fatta di tavole in legno e di miriadi di frammenti di oggetti tra i più svariati appesi a una griglia al soffitto e sospesi fin quasi a terra. «Assistiamo ogni giorno a esplosioni, in film d’azione, documentari o nelle notizie di servizi su conflitti interminabili. Ho voluto creare una vera esplosione, non una rappresentazione. Ho scelto il capanno del giardino perché è il luogo dove riponi le cose che non riesci a buttare». Il ripostiglio viene fatto esplodere da Cornelia Parker sotto la supervisione di tecnici specializzati in munizioni che l’aiuteranno poi a recuperare i detriti sparsi sul campo. «Nel sospendere in mostra i pezzi uno a uno, questi hanno cominciato a perdere il loro respiro di morte; è stato l’inizio di un rianimarsi. Dall’interno la luce proiettava ombre imponenti sulle pareti. Il capanno sembrava esplodere nuovamente o forse ritrovare una forma». La frammentazione degli oggetti, di cui talvolta si indovina l’origine, i materiali e i colori di tutti generi, uniti alla mobilità, creano una sorta di magica struttura trasparente.
«Tenere lontani i demoni» è l’aforisma che unisce le circa cento opere della Tate come nel muto concerto della ballata di trombe schiacciate da un rullo compressore e appese in circolo. Private del suono è solo la danza dei loro fantasmi proiettati che può supplire all’assenza di vibrazione e al silenzio di una musica un tempo squillante. Perpetual canon, il titolo dell’opera, come l’ininterrotto pensiero sottile e penetrante di questa acuta, straordinaria artista.

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