«Li ho letti, li ho trascritti, li ho studiati e ora sono qui sul palco con loro. I sogni si avverano»: così un giustamente soddisfatto Pasquale Mirra, alla fine del concerto che lo ha visto protagonista con William Parker e Hamid Drake per un inedito trio all’Arena San Domenico di Forlì domenica sera, a cura di Area Sismica, anteprima della sesta edizione dell’Open Music Festival che avrà luogo da quelle parti il 5 e 6 novembre. La formazione in realtà può essere considerata a buon titolo germinazione di due coppie rodate: da una parte Parker e Drake, poderosa e classica sezione ritmica, albero motore di tanti dischi straordinari anche nello scarno e magnetico assetto a due; dall’altra Drake e Mirra a incrociare batteria, percussioni e vibrafono dal 2008. Aspettative alte dunque per un incontro al vertice tra la storia del jazz e uno dei nostri talenti da esportazione già da tempo proiettato anche in altri ambiti (C’Mon Tigre) e all’estero (la Exploding Star Orchestra di Rob Mazurek). Mirra apre con l’archetto sul vibrafono, Parker simula scosse telluriche sul contrabbasso, Drake aggiunge un po’ di accademica tempesta. Il mood è febbrile, da improvvisazione allo Studio Rivbea – è il loft dove hanno avuto luogo le sessions del box Wildflowers, vangelo per chi segue queste musiche – altezza 1976, ma si percepisce presto che qualcosa non funziona a dovere.

UN GROOVE mobile sostiene le invenzioni del luminoso vibrafono di Mirra, molto a suo agio, africano e affilato nell’intenzione come e talvolta più dei suoi complici, sempre pronto a aprire nuovi scenari. A tratti affiorano bei lampi ma il trio non dà l’impressione di un’unità del tutto coesa. Dopo la foga iniziale la marea di suono e la tentazione, non sempre controllata, di riempire quasi tutti gli spazi, lasciano il posto allo shakuhachi (un flauto giapponese) di Parker (magnifico il suo ultimo opus magnum, i dieci cd di Migration Of Silence Into And Out The Tone World, del 2021). Il primo lungo pezzo si chiude sui toni elegiaci e sostenuti del contrabbasso suonato con l’archetto. Poi un dialogo tra tamburo a cornice e ngoni, un cordofono africano che funge da basso: affiorano memorie di Song Of Hope, dallo storico Raining On The Moon del William Parker Quartet, con Lou Barnes, Rob Brown e la voce ospite di Leena Conquest. Se in pietre miliari (usciva nel 2000) come Piercing The Veil il potente lavoro dei due giganti del jazz funzionava a meraviglia grazie ad un impianto minimalista a seguire le orme di un’ancestrale Great Black Music, qui la magia non scatta, nonostante l’ottima verve di Mirra. Gli incastri prodigiosi, apparentemente semplici e realmente trascinanti, marchio di fabbrica dei due afroamericani, scompaiono in una foschia incerta e qualche lungaggine.

NATURALMENTE tutto resta godibile grazie al livello degli interpreti, alla loro confidenza con gli strumenti, la pratica da madrelingua dell’improvvisazione e la maestria nel dosare le dinamiche: l’impressione però è quella di un compito scritto in buona calligrafia, senza guizzi. Dopo un bis che non aggiunge né toglie nulla, William Parker, di ritorno sui nostri palchi dopo un assenza di qualche anno, saluta: «Sono felice di essere di nuovo in Italia. Spero che i miracoli vengano a bussare alla vostra porta». Ci aspettavamo una serata memorabile, miracolosa, così non è stato: capita anche ai più bravi.