Park City al femminile
Sundance Folta la presenza di attrici e registe al festival, dove intanto si discute sulla discriminazione tra sessi e la presenza di donne nell’industria del cinema
Sundance Folta la presenza di attrici e registe al festival, dove intanto si discute sulla discriminazione tra sessi e la presenza di donne nell’industria del cinema
Culla/laboratorio delle identity politics da grande schermo, fin dai suoi inizi – è nato qui il cinema queer di Todd Haynes, Gregg Araki, Rose Troche…), quello post-queer (sempre Araki), quello black (Lola Darling, il primo Spike Lee debuttò a Park City), quello degli indiani d’America e dei Latinos (per cui Redford aveva voluto rispettivamente una sezione e un premio a parte)- il Sundance Film Festival ha fatto quest’anno delle donne il suo gender di punta. Non solo i comunicati stampa del festival annunciano con orgoglio che il 32% dei film in programma è diretto da donne (contro il 4.4% di registe tra i 100 maggiori incassi negli anni 2002-2012).
«Il 2015 al Sundance è l’anno della donna. Hollywood sta venendo a termini con il femminismo» hanno dichiarato, in una tavola rotonda organizzata da Variety, persino Michael Barker e Tom Bernard, presidenti della Sony Classics, una delle etichette più di establishment della distribuzione indipendente Usa. Tormentone invocato dai giornalisti alla prima occasione, in tavole rotonde, interviste e semplici esternazioni, sul «problema» delle donne nell’industria del cinema hanno dovuto commentare un po’ tutti – da Redford, alla produttrice Christine Vachon a Lena Dunham (che ha 28 anni e possiede un impero, e che quindi sulla discriminazione tra sessi non sa mai cosa dire..). Manco fosse una malattia.
Questo entusiasmo sfrenato per tutto ciò che è femminile nel cuore delle Wasatch Mountains non è casuale o disinteressato. In parte si aggancia alle polemiche per l’esclusione dalle nomination degli Oscar di Angelina Jolie e (soprattutto) di Ava DuVernay (un’alumna di Park City), in parte è stato alimentato da un lungo, dettagliato, articolo di Manohla Dargis (uscito sul New York Times a inizio festival), che con un’indignazione da Savonarola, tratteggiava il quadro di un’industria ancora in gran parte dominata da uomini (bianchi) e in cui le donne dietro e davanti alla macchina da presa continuano a essere marginalizzate o escluse.
In effetti, negli scorsi giorni, al Sundance di donne se ne sono viste tante – dietro e davanti alla macchina da presa, anche se non tutte speciali come la Mistress America di Greta Gerwig e Noah Baumbach. Insieme alla favolosa Nina Simone (nel documentario di Liz Garbus), è stata per esempio protagonista della serata d’apertura Hope Ann Greggory (l’attrice Melissa Rauch), ex ginnasta prodigio, maledetta per sempre da una brutta caduta alla finale olimpica e dalla medaglia di bronzo conseguita grazie a un’eroica performance alle parallele asimmetriche effettuata subito dopo l’incidente.
Presentato in concorso, e diretto da Bryan Buckley, The Bronze inizia con Hope Ann che si masturba furiosamente davanti alle immagini della sua «grande notte», vista e rivista per anni su uno scassatissimo TV/VCR. Frangetta bionda, coda di cavallo perfetta, ancora incorsettata nella divisa della nazionale a stelle e strisce, Hope Ann è un freak, che ha sfruttato fino all’esaurimento i benefici della sua celebrity di provincia e ora vive alle spalle dello squattrinato padre postino, sniffando medicine per il raffreddore e abusando il credito dei negozianti locali che non la sopportano più. Acida nel taglio e nei colori come la sua protagonista, nei suoi momenti migliori, la commedia di Rauch ricorda la cattiveria di Young Adult. E, infatti qui a Sundance, Hope Ann ha avuto l’accoglienza fredda e un po’ scandalizzata riservata a suo tempo al personaggio di Charlize Theron nel film di Jason Reitman sceneggiato da Diablo Cody. Della serie, quindi, donne sì ma non «troppo» – un ragionamento che esclude a priori le magnifiche ragazze elettriche di Tangerine e Lana Wachowski (proiettato segretamente lunedì sera, Jupiter Ascending avrebbe lasciato perplessa la platea del festival. C’era da aspettarselo)
Potrebbe essere una strega, ma nessuno ha invece problemi con l’angelica, bionda, Thomasin, in The Witch, uno dei film più pompati di quest’edizione e uno dei primi ad aver trovato distributore (la newyorkese A24). Raramente gli horror arrivano in concorso a Sundance. E, in effetti, questo debutto di Robert Eggers è meno interessato al genere che alla ricostruzione storico/ambientale del New England puritano da cui sfociarono, nel 1692, i processi di Salem. Ambientato intorno al 1630, è la storia di una famiglia esiliata dal suo villaggio per ragioni religiose e costrette a vivere in isolamento ai margini di una foresta. Thomasin, la figlia maggiore, viene incolpata quando il neonato di famiglia sparisce come inghiottito dal bosco. Squarci della carne flaccida di una vecchia, mani unghiute e sporche di sangue in una casetta come quella di Hansel e Gretel ci dicono che la famiglia in questione ha dei vicini molto pericolosi. Eggers (che sostiene di essersi ispirato a The Shining, ma che avrebbe dovuto studiare The Village di M. Night Shyamalan) punta meno sui mostri che sulle dinamiche di sospetto, paura e senso di colpa che si sviluppano tra genitori e i figli – un La cosa parlato in inglese coloniale e con costumi che starebbero bene in una collezione di Comme de Garcon.
Ancora più accattivante (e il film con cui la Sony Classics capitalizzerà sul trend femminile di quest’anno- prevediamo un successo sicuro), è Diary of a Teen Age Girl di Mariel Heller (esordiente anche lei), ariosa commedia ambientata a San Francisco – tra il Todd Solondz di Welcome to the Dollhouse e Ghost World di Terry Zwigoff. Come il film di Zwigoff (adattato dai fumetti di Daniel Klowes) Diary è basato sull’omonima graphic novel di Phoebe Gloeckner, che Heller aveva portato sul palcoscenico nel 2010. L’anno è il 1976, alla tv si parla solo del rapimento di Patty Hearst, la marijuana sta cedendo alla coca, il rock psichedelico alla disco music, Hashbury Heights si è spostato a Castro Street, la rivoluzione sessuale si pratica nel salotto di casa e Minnie Goetze (la giovane attrice inglese Bel Powley) – ci annuncia all’inizio del film – ha fatto sesso. Che il partner di quel primo incontro amoroso sia il fidanzato di sua madre (Kristin Wiig) è solo uno dei dettagli di questa lunga avventura di formazione raccontata sotto forma di diario e in cui le fantasie e le riflessioni di Minnie esplodono spesso nei vivaci, coloratissimi, disegni che –sogna lei- un giorno saranno i suoi fumetti.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento