Parigi, Monica e il desiderio
Incontri Bellucci presenta a Venezia la nuova versione di «Irréversible» accanto a Vincent Cassel
Incontri Bellucci presenta a Venezia la nuova versione di «Irréversible» accanto a Vincent Cassel
Si definisce da sempre «una gitana». Gitana deluxe, che ha casa a Lisbona, a Londra e a Parigi. Per lei «gitana», Parigi è diventata subito un punto di stabilità, come dice, una «fonte d’equilibrio», da quando l’ha scoperta a 17 anni, ancora studentessa e modella agli esordi e da quando vi è tornata, nel 1995, per viverci e lavorare, stavolta come attrice: «Questa città, dove ho messo piede per la prima volta da ragazza, mi è stata immediatamente amica: mi ha trasmesso subito una bella energia, scosse di vita. Mi ha dato tanto, senza aspettare».
Dopo un quarto di secolo e una cinquantina di film, non tutti francesi, lo ripete a Vivement dimanche prochain, simpatica trasmissione tv dove ha raccontato la serie Dix pour cent, gran successo sia in Francia che in Usa (con il titolo Call my Agent), sul dietro le quinte del mondo del cinema e la figura dell’agente dei divi, lei, naturalmente, Diva («ma – precisa subito – nella vita di tutti i giorni, quando non mi concedo il lusso del cinema, occupazione che continuo a amare moltissimo, sono una donna come le altre, una mamma che si occupa delle figlie e delle faccende di casa»).
È bello incontrare e dialogare con Monica Bellucci, non solo perché è «la beauté du diable», come s’è definita: calorosa, autentica, diretta («mediterranea», direbbe lei), sicura e irriverente, l’attrice non maschera mai la donna, che, una volta madre, non ha esitato a mettere in stand by la carriera per dedicarsi alla crescita delle figlie, Deva, quindici anni, e Léonie, dieci: «La maternità, come impegno creativo, mi coinvolge molto più del cinema: essere madre è l’arte suprema». Le sue idee limpide e controcorrente infiorano le innumerevoli interviste nei magazines femminili, da Vogue a Vanity Fair, da Lifestile a La Parisienne, a Elle che, parafrasando La Belle et la Bête, le ha dedicato il titolo più sintetico e completo, La belle et la tête, bellezza & intelligenza, con richiamo all’ammicco ammirato (7 anni fa, prima del divorzio) di Vincent Cassel: «Conoscete davvero Monica? Quando la si avvicina è del tutto evidente che la sua più grande qualità non è la bellezza ma quel che è, che dice, che pensa ». Cui lei, da lontano, in un incontro a Marrakesh (Festival in cui è già stata tre volte), ha idealmente replicato con intelligenza, riaffermando i diritti-privilegi della bellezza: « Condividere con gli altri la propria bellezza è una forma di generosità ». Generosissima, nei giorni scorsi, la Bellucci, in forma superba, 55 anni a fine mese, ha sfolgorato a Venezia in sontuosi e sinuosi abiti imperiali, con strascichi infiniti a rischio inciampo.
Bello dialogare con Monica Bellucci, ma difficile incontrarla (a meno che non si sia un po’ gitani come lei), dati i continui spostamenti – iniziati nel 1997 al Mystfest di Cattolica con Dobermann di Jan Kounen – per multipli impegni: madrina (Cannes 2017, Prix Lumières 2018 a Parigi), giuria (Festival di Dinard 2018), masterclass (Taormina 2010), promozione di suoi film (Malena premiato al Festival di Cabourg 2001, I migliori anni della nostra vita quest’anno a Cannes, in uscita il 19 e adesso, a Venezia, l’«inversione integrale» di Irréversible).
Tra Gran Bretagna e Brasile, ha scelto la Francia come seconda patria. Perché?
Perché amo Parigi! Le mie figlie parlano cinque lingue: francese, italiano, spagnolo, portoghese, inglese. Ecco il vantaggio d’avere genitori nomadi! Ho sempre preferito portarle dappertutto facendo loro seguire la scuola nei nostri luoghi di lavoro, piuttosto che lasciarle crescere sole, lontano da noi.
Le mie scelte – cinema e Parigi – non hanno alcuna «radice» familiare: mio padre lavorava nei trasporti, mia madre era casalinga, tutta dedita a me, essendo figlia unica. Che lusso! Entrambi mi parlavano di cinema e fin da bimba ho cominciato a affezionarmi a attrici meravigliose, come Brigitte Bardot o Jeanne Moreau: attrici francesi che recitavano pure in film italiani! Anouk Aimée l’ho scoperta in Fellini. Una volta in Francia, le ho «riscoperte» nei film francesi.
La bellezza è stata il suo segno distintivo sin da ragazzina?
Ero soprattutto esageratamente timida, chiusa in me stessa. Avevo paura degli altri. Anche se in famiglia ero circondata da cugini e cugine, il mio problema non erano tanto gli apprezzamenti sul mio fisico, che avrebbero potuto azzerare tutto il resto, ma il fatto d’essere figlia unica. Dev’essere per questo che ho voluto aver due figlie.
Ai suoi cine-esordi, lo «status» di modella deve averle giocato contro, vero?
Sì: «Un’altra»?, era la prima reazione. Francis Ford Coppola fu tra i primi a ingaggiarmi, ma in un ruolo «fisico», senza parole, nel 1992, in Dracula di Bram Stoker. Un po’ nella mentalità: «Sois belle et tais-toi». L’età mi dà ora nuova forza. Che il film funzioni o no, sarà stato comunque una mia scelta. Più facile oggi che all’indomani delle passerelle di moda, quando si chiedevano che cosa mai avrei potuto apportare a un film.
La sua tenacia ha avuto la meglio: anche se, tra Cleopatra in «Astérix» e «Un été brûlant» di Philippe Garrel, c’è un bel salto.
Se ripenso ai film girati da giovane, tipo The Passion di Mel Gibson, vedo che ho scelto sempre ruoli di donna costretta a battaglie personali in un mondo di uomini: donna che soffre ma rifiuta d’essere una vittima. Non m’è mai troppo piaciuto interpretare donne polpose e glamour. Rischiare, aderire a progetti anche un po’ pazzi: questo mi piace. Come nella pellicola che nel 1996 mi ha lanciato, L’appartement di Gilles Mimouni.
Come «Irréversible»?
Ho sempre cercato di diversificarmi, sia prendendo parte a blockbuster che a film senza distribuzione sicura. La mia cinematografia mi assomiglia. Isabelle Huppert lo ha detto meglio di me. In ogni attrice si sono tante principesse che dormono. Ogni ruolo che arriva ne risveglia una. Quanto alle reazioni veneziane al film, è vero: per molte donne è stato uno choc, dovuto però alla vicenda toccata a una di loro. Questo è l’importante.
Blockbuster: lieta della sua apparizione di Bond girl in «Spectre»?
Diciamo Bond lady. È la prima volta che una donna di cinquanta anni viene scelta per dar man forte a 007. È il segnale che lo sguardo sulle donne è cambiato. Oggi un neonato in Europa ha davanti cento anni di vita! A cinquanta, è solo a mezza strada.
La donna è dunque oggi sufficientemente protetta?
No, le donne hanno bisogno d’essere rispettate, d’essere amate, non di essere protette. Di questo son ocapaci, e molto bene, da sole. L’uguglianza continua a essere un’illusione, dal momento che l’oganizzazione della vita domestica e l’educazione dei figli sono ancora in gran parte sulle nostre spalle. In più, a parte la minuscola Islanda, mi pare che dappertutto la donna debba conformarsi al modello maschile. Un esempio: ho adorato allattare. È una delle esperienze più belle della mia vita. Ma, fossi stata impiegata o cassiera, avrei potuto farlo nelle condizioni migliori? In Francia non è il bébé né la madre a scegliere, ma la legge sul lavoro.
Perché allora la Francia?
È il Paese che ha inventato i diritti umani e il cinema! Rispetto la sua laicità, son felice che le mie figlie possano fruire d’un insegnamento laico. Tra l’altro, non ci possono essere guerre di religione in un Paese fondato sulla laicità. Ma, allo stesso tempo – scoppia a ridere –, adoro Papa Francesco! Un vero rivoluzionario!
Allora: meglio l’Italia o la Francia?
Tutto in me è italiano, i miei colori, il mio fisico, il mio modo di nutrirmi, la mia energia. Difendo a spada tratta il cinema italiano contemporaneo, da Paolo Sorrentino a Matteo Garrone, anche se rimango un’eterna parigina: un pezzo del mio cuore è sempre a Parigi. Non ho mai chiesto la residenza francese: vivere in Francia è dunque una mia scelta, e basta. Parigi è bella. Di questa bellezza non posso fare a meno. Mai. E ricordiamoci: sono donna prima che attrice. Dalle italiane ho imparato l’amore materno. Dalle francesi, a essere libera.
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