Parchman blues
Tracce/Un disco registrato nel penitenziario dello stato del Mississippi Ian Brennan, produttore e ideatore del progetto, ha riunito alcuni detenuti del famigerato carcere, dove violenza e abusi regnano sovrani
Tracce/Un disco registrato nel penitenziario dello stato del Mississippi Ian Brennan, produttore e ideatore del progetto, ha riunito alcuni detenuti del famigerato carcere, dove violenza e abusi regnano sovrani
«In ogni paese, tra le persone maggiormente emarginate ci sono quelle rinchiuse in carcere. Vale per chiunque, per la nazione più ricca al mondo come in una qualsiasi inclusa nella top venti delle benestanti. Riguarda anche l’Italia che ha le prigioni più sovraffollate d’Europa. Gli Stati Uniti sono al primo posto come numero di detenuti e tasso d’incarcerazione. Parametro per cui il Mississippi è al secondo posto nella nazione, oltre a essere lo stato più povero e quello con la maggior percentuale di afroamericani in prigionia. Questi fatti non sono indipendenti tra loro, non è una questione politica, queste sono disparità del tutto innegabili e non hanno posto in una democrazia». Il produttore discografico ed errabondo documentatore di suoni e storie dal mondo Ian Brennan, così si esprime riguardo alla situazione carceraria negli States sottolineando come il Mississippi sia vessato oltremodo. Brennan è parte in causa, in quanto ha recentemente pubblicato via Glitterbeat Records la sua nuova creatura discografica Parchman Prison Prayer: Some Mississippi Sunday Morning. Le parole dell’uomo di Oakland, California, sono confermate dai dati ufficiali. Il Bureau of Justice Statistics, che è dentro il Department of Justice degli Usa, dal 1982 redige rapporti annuali in cui sono elencati e analizzati i numeri dei reclusi nelle prigioni locali, statali e federali. A fine dicembre 2022 la popolazione carceraria era di 1.230.100, con un aumento del 2% rispetto al 2021 (1.205.100). Il 32% erano afroamericani. In Mississippi, si è passati da 17.332 reclusi nel 2021 a 19.802 nel 2022.
DIRITTI NEGATI
Il principale penitenziario di stato è quello di Parchman, nella contea di Sunflower. Siamo nel Delta del fiume Mississippi e quella prigione, era, è e probabilmente sarà ancora a lungo un malsano modello di violenza razziale, sopraffazione e diritti negati. Che la situazione fosse drammatica, durante lo scorso secolo se ne accorse anche l’etnomusicologo Alan Lomax: sia assieme al padre John che in veste personale si recò ripetutamente tra quelle mura negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta per dar vita a molteplici sessioni di registrazioni con i reclusi. Documentò quei momenti sia dal punto di vista discografico che letterario, come testimonia il libro La terra del Blues, dove dedica un ampio capitolo a quella esperienza. Uno dei passaggi più duri recita: «Quando visitammo Parchman per la prima volta, lo strumento più usato per mantenere la disciplina, con il beneplacito dello Stato, era una larga striscia di pelle lunga circa un metro e venti e spessa mezzo centimetro, forata all’estremità in modo che ogni colpo inferto sulla carne nuda provocasse delle vesciche che il colpo successivo faceva scoppiare». Nonostante quelle pratiche degne dei campi di concentramento nazisti siano terminate, le cose a Parchman non vanno per niente bene. Basti pensare che nell’aprile 2022 la Civil Rights Division del già citato Dipartimento di Giustizia, ha rilasciato un rapporto investigativo di sessanta pagine dove accusa il Mdoc (Mississippi Department of Corrections) di gravissima incapacità gestionale, al punto da violare gli emendamenti 8 e 14 della costituzione americana. Tra le varie, al Mdoc viene imputato di «non riuscire a proteggere le persone detenute dalla violenza per mano di altre persone detenute».
A Parchman armi, droga, bande, estorsioni, violenza, omicidi e suicidi sono la triste realtà. Brennan, in tale ambiente tutt’altro che rassicurante, è riuscito a portare a compimento il progetto nel cui titolo Parchman Prison Prayer: Some Mississippi Sunday Morning, si rintraccia la genesi del tutto: «Avevo una finestra temporale di poche ore da poter usare durante la mattina di domenica. I programmi iniziali erano altri, in quanto ero stato invitato da un amico ad andare ai Grammy, ma apertasi l’opportunità non ho avuto dubbi e sono partito. Ho preso due voli notturni e poi ho guidato fino a Parchman. Appena arrivato in circa dieci minuti ero già pronto. Sono in grado di prepararmi in fretta perché spesso registriamo fuori o in situazioni mutevoli, dove non sai mai cosa può succedere. Non avevo idea di cosa avrei trovato, avevo solo fede nel fatto che queste voci meritassero di essere ascoltate e ne avessero bisogno. Ancora non c’era nessuna label coinvolta e non sapevo se ci sarebbe stato un disco. All’inizio della registrazione le persone, quattordici carcerati e un cappellano, erano riluttanti. Nessuno voleva farsi avanti, è del tutto normale in questi contesti… ma poi, dopo qualche esitazione hanno rotto il ghiaccio».
QUATTRO MICROFONI
Il disco, composto da quindici canzoni di una bellezza struggente, si muove in buona parte tra spiritual, blues e soul: «La sessione prevedeva canzoni a cappella, un coro, formazioni in duo e trio, ma all’improvviso hanno preso in mano gli strumenti elettrici e mi sono ritrovato spiazzato: è accaduto con Lay My Burden Down con cui si chiude il disco. Non era in programma e mentre stavano per iniziare mi sono detto “accidenti, ho quattro microfoni e c’è una band di quattordici persone”. Sono situazioni difficili da incidere, perché a volte ciò che suona bene nella stanza esce terribile nella registrazione e viceversa. Ho fatto del mio meglio con quei quattro microfoni, correndo avanti e indietro e puntandoli in direzioni diverse. Come se non bastasse, si sono aggiunti due cappellani e siamo quindi arrivati a diciassette persone coinvolte. È finita con una passione e un’energia fantastiche, con uomini che all’inizio sedevano lontani e alla fine si abbracciavano, ridendo e applaudendo. In quel momento c’è stata gioia e speranza. Penso che questo sia ciò che può fare la musica, unire. Certo, non può risolvere i problemi del mondo, ma in un preciso momento può essere meravigliosa e sacra, raggiungendo traguardi che poche altre attività possono realizzare».
Il progetto, a cui Brennan lavorava dal 2019 assieme alla moglie e fotografa Marilena Umuhoza Delli, autrice della parte visuale dell’album, si apre con il toccante gospel a cappella Open the Eyes of My Heart, Lord che lascia poi il passo a I Give Myself Away, so You Can Use Me, uno dei brani più intensi: «La persona che canta è un musicista incredibile, anche al basso in Lay My Burden Down. Stava suonando il piano, cercando di insegnare velocemente la canzone ad un’altra persona, era così emozionante che gli ho detto: “Per favore, registriamo te” e lui: “No, non sono un cantante”. L’ho supplicato di farlo ed ha accettato, scegliendo di restare anonimo. È stato bellissimo! Ascoltate l’abbandono della sua voce, è così pieno e genuino».
Da brividi, oltre la versione di Lay My Burden Down che ricorda la leggendaria Jesse Mae Hemphill, sono anche gli spiritual solisti Break Every Chain e Step into the Water e quello collettivo di If I Couldn’t Say One Word, I’ll Just Wave My Hand. Eccelso è il groove in bilico tra chiesa e hip hop di Locked Down, Mama Prays for Me, dove uno dei due autori ha scritto liriche rap, in cui parla del suo rimorso nei confronti dei genitori dato dalla detenzione. Spettrale e primitiva è Solve My Need: «Il cantante è M. Palmer, un uomo di sessant’anni che come tutti è identificato con le iniziali del nome, al fine di proteggerne privacy e diritti, perché questo progetto non è un’esaltazione dei carcerati, ma una dimostrazione del potenziale di redenzione e cambiamento che hanno queste persone. Penso che chiunque ascolti queste voci percepisca quanta sofferenza e pentimento vi sono in esse e in chi le canta». Nella totalità dei suoi lavori, da sempre Brennan cerca una intimità profonda che connetta chi ascolta agli artisti che documenta: «Questa musica è, in un certo senso, anti-IA. È l’esatto contrario dell’intelligenza artificiale. È sincera. Penso che le persone siano affamate di onestà, perché nella vita ne ricevono poca. Possono trovarla nella bellezza della registrazione, dove si incontra musica che viene davvero dal cuore. Non è una connessione intellettuale, ma viscerale. Penso che questo debba essere l’obiettivo della musica».
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