«Paradiso», la distanza dal cielo e il rituale collettivo di una città
A teatro Martinelli e Montanari hanno presentato il terzo capitolo della «chiamata pubblica» per la Commedia. Dalla tomba di Dante alle strade di Ravenna, con lo sguardo verso l’alto
A teatro Martinelli e Montanari hanno presentato il terzo capitolo della «chiamata pubblica» per la Commedia. Dalla tomba di Dante alle strade di Ravenna, con lo sguardo verso l’alto
Che cos’è il Paradiso? Ci sono contadini? Zappano? Portano scarpe nuove in Paradiso? Chiede la bambina vestita di bianco. Dante è sempre pieno di domande, spiega Marco Martinelli. Un po’ corifeo, un po’ narratore di questo Paradiso, terzo tratto della pluriennale «chiamata pubblica» per la Divina commedia di Dante Alighieri, in origine previsto per l’anno del centenario dantesco, il 2021, poi è successo quello che si sa e si è dovuto rinviare. Ma ora siamo qui, di nuovo. All’ora del tramonto, davanti al tempietto dove sta la tomba di Dante. Il rituale non è cambiato. Insieme ai due artefici, Martinelli ed Ermanna Montanari, ci si avvia in corteo per le strade di Ravenna, preceduti dal suono di un trombone. Da qualche casa proviene un canto. Barchette di carta penzolano appese a una canna da finestre e balconi. Forse correlativo della «piccioletta barca» che apre il secondo canto del Paradiso, rifugio di coloro che non hanno la forza di continuare il viaggio iniziato nei gironi infernali. L’acqua ch’io prendo già mai non si corse, dice il poema.
È UN VIAGGIO difficile infatti quello dentro l’ultima cantica del poema dantesco, meno facilmente riducibile a una dimensione teatrale. Bisogna liberarsi di ogni inutile viatico, di tutto ciò che si è portato fino a questa soglia e ora appare superfluo. Come sanno coloro che si sono messi per questa strada. E non dimentichiamo, a distanza di parecchi anni, l’ascetica visione che ne diedero Federico Tiezzi e Sandro Lombardi appoggiandosi alla trascrizione di Giovanni Giudici. O quella più recente di Eimuntas Nekrosius, frantumata e ricomposta in pochi frammenti che la traduzione nella lingua lituana rendeva lontani, mentre fra carezze e baci la ragazzetta che si era assunta il ruolo di Beatrice mormorava che sì, il paradiso c’è. E poi ancora il Paradiso di Romeo Castellucci ad Avignone, appena un’immagine che soltanto si poteva spiare per un breve istante da un foro praticato in una parete, quasi a fissare così l’impossibilità di attingere a quel luogo.
Che cos’è il Paradiso? Sei certo che ci sia un padre su nel cielo? Chiede la bambina mentre traccia enigmatici segni nell’aria. Ma questa è Emily Dickinson! Perché ognuno in Paradiso ci porta chi vuole – a Tiezzi si accompagnava Ezra Pound. E poi Dickinson ci sta bene, come quei suoi versi bellissimi che dicono: Io abito nella possibilità, una casa più bella della prosa… e la mia vita è questo allargare le mani per accogliervi il Paradiso. Così come risuonerà di lì a poco il trasumanar e organizzar pasoliniano. Sono cent’anni dalla nascita e tutto il mirabile Ravenna festival sta sotto il nome del poeta friulano. Intanto in corteo siamo giunti al cancello dei giardini. Si è entrati accolti uno per uno da Ermanna e Marco con una formula propiziatoria segnata sul volto: Tre giri di tre colori e una continenza. Ed eccoci nell’ampio semicerchio davanti alla rinascimentale Loggetta Lombardesca. Le due metà del possente coro sono già lì, ai due lati. E ci sono ricamatrici intente al lavoro e bambini corrono in bicicletta nello spiazzo. Tutti quanti vestiti di bianco.
Lo sguardo però corre in alto. Nelle nicchie della loggia a cinque archi sono collocate altrettante statue di un bianco marmoreo che se tornate in quei giardini non troverete più. Però qui ora si animano e dialogano con chi sta in basso, magia del teatro. Se ne stanno lì, nei loro cieli, le figure in qualche modo esemplari scelte dai due artefici fra le tante anime trasumanate offerte dalla Commedia. C’è la nobile Piccarda Donati, la prima incontrata da Dante, e Cunizza da Romano che molto ha amato e dunque molto le è stato perdonato. Ci sono Pier Damiani e San Pietro; San Tommaso che racconta di Francesco che invece se ne sta giù, circondato dai suoi fraticelli. E l’imperatore Giustiniano a cui convengono le parole di un pontefice del XXI secolo – deve essere quello sbeffeggiato dai commentatori televisivi per aver detto che riempire il mondo di armi è una vergogna. Non c’è futuro senza solidarietà. E infatti quando appare un manipolo di soldati che puntano i fucili contro gli spettatori e circondano Cacciaguida, l’antenato di Dante venuto a predire come sa di sale lo pane altrui, allora tornano i bambini a cacciarli via.
Insomma, è chiaro che c’è una distanza da quei cieli per noi che stiamo in basso, nello spazio percorso dalla voce di Mirella Mastronardi che irrompe di corsa con un salmo cantato in aramaico – e con lei, bisogna ricordare tutti gli attori delle Albe, Luigi Dadina, Alessandro Argnani, Camilla Berardi, Roberto Magnani, Laura Redaelli, Alessandro Renda, Salvatore Tringali. Mentre le musiche di Luigi Ceccarelli affidate a un quintetto che sta nella loggia inferiore, davanti a un fondale dorato, provvedono a riempirlo in un crescendo sonoro che non lascia scampo. Forse per dire che il nostro paradiso dobbiamo trovarlo qui, come in fondo suggeriva Emily Dickinson.
È IL TEMPO di mangiare dio. Due donne passano a distribuire un piccolo pezzo di pane a tutti gli spettatori, rito conclusivo della cerimonia comunitaria. Si finisce invece a evocare la sfida fra Bernini e Borromini, i due protagonisti della grande stagione del barocco romano. Bernini rimproverava all’altro lo slancio verticale delle sue architetture, metti San Carlino alle Quattro fontane. Quasi che per guardarle bisognasse alzare gli occhio al cielo, sdraiandosi sul proprio mantello. Ed ecco che vengono distesi a terra dei grandi tappeti circolari, dove chi vuole può distendersi. Mentre Ermanna Montanari comincia a dire le parole dell’ultimo canto. Vergine Madre, figlia del tuo figlio.
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