Paolozzi e Wittgenstein, un «incontro» a Cassino
SCAFFALE Le vicinanze e divergenze tra l’artista e il filosofo ora vengono indagate in un saggio a più voci a cura di Diego Mantoan e di Luigi Perissinotto (edito da Palgrave)
SCAFFALE Le vicinanze e divergenze tra l’artista e il filosofo ora vengono indagate in un saggio a più voci a cura di Diego Mantoan e di Luigi Perissinotto (edito da Palgrave)
Già da trent’anni, in una pagina del famoso manuale di arte contemporanea di Giulio Carlo Argan, campeggia l’immagine di una colorata struttura in alluminio dipinto, datata 1963 ed esposta per la prima volta allo «Studio Marconi» di Milano, e a firma di Eduardo Paolozzi (1924-2005). È l’artista scozzese, di origine italiana, tra i più quotati nel panorama della Pop Art (di cui è stato pioniere). A colpire l’attenzione dello spettatore è anche il titolo di quest’opera: Wittgenstein at Cassino.
IL RIFERIMENTO è chiaramente al periodo di prigionia trascorso dal filosofo austriaco nel 1919, nel campo di concentramento della città del Frusinate (o meglio, nella frazione di Carnia), dopo essere stato fatto prigioniero a Trento.
A Cassino Wittgenstein ha sostato, come merce di scambio degli italiani, da gennaio ad agosto; in questo stesso contesto ha probabilmente terminato la stesura del Tractatus e poi ha maturato la decisione di diventare maestro elementare. Certo, il riferimento alla città laziale è sicuramente un aspetto importante per la biografia di Paolozzi, la cui famiglia proviene originariamente da un paese di montagna, Viticuso, nel cassinate.
OLTRE A ESSERE CENTRALE, l’interesse di Paolozzi per Wittgenstein è ricorrente: se Wittgenstein at Cassino e As is When: Wittgenstein the Soldier, sono d’inizio anni Sessanta, altre opere, come ad esempio le serigrafie dal titolo A logical picture of facts is a tought, Tractatuts 21-22, sono riferibili alle metà degli anni Novanta. È quindi sorprendente che finora non ci sia stato, né in ambito storico-artistico né filosofico, un lavoro di ricostruzione delle «somiglianze di famiglia» tra Paolozzi e Wittgenstein. A colmare questa lacuna editoriale è ora un volume in lingua inglese dal titolo Paolozzi and Wittgenstein (edito da Palgrave, pp. 222) per la cura di Diego Mantoan e Luigi Perissinotto.
La fortuna di Wittgenstein nel mondo artistico (anche quello letterario o cinematografico) è stata – e continua a essere – di grande impatto. Fonte di ispirazione per le Muse è non solo la sua filosofia, ma anche la sua biografia eslege: un filosofo, e che nella vita ha sempre fatto anche altro (il giardiniere, il maestro elementare, l’architetto).
Ma c’è di più: il pensiero di Wittgenstein non ha mai smesso di confrontarsi con la dimensione estetica. In primo luogo con la musica (che a casa Wittgenstein ha sempre avuto un ruolo di spicco), ma anche con la pittura, con l’architettura, con la poesia. Insomma se c’è del Wittgenstein in Paolozzi, c’è anche del Paolozzi in Wittgenstein, in richiamo reciproco e necessario tra filosofia e arte che continua a darci da pensare (e da vedere). È allora lungo un doppio tracciato che si collocano i diversi contributi di artisti e filosofi ospitati nel volume Paolozzi and Wittgenstein: per un verso intendono presentare l’artista come un precursore nel «leggere» il filosofo nell’ambito dell’arte contemporanea, influenzando la generazione di artisti concettuali che viene dopo di lui. D’altro lato sono volti a dimostrare come il «lettore» Paolozzi possa essere visto come un precursore rispetto alle successive interpretazioni della filosofia wittgensteiniana.
LA PRIMA SEZIONE del libro (che ospita interventi di Silvana Borutti, Wolfgang Huemer, Alessandro del Puppo e Maren Wienigk) è dedicata ad analizzare quanto e come il pensiero di Wittgenstein (sia nel suo contenuto sia nel suo stile) abbia «informato» la grammatica artistica di Paolozzi, mettendo quindi in connessione le due forme culturali.
La seconda sezione ripercorre (grazie ai contributi di Luigi Perissinotto, Rachel Stratton, Stefanie Stallschus e Diego Mantoan) le tappe d’incontro tra l’artista britannico e la filosofia (nonché la biografia) di Wittgenstein, esaminando ad ampio raggio l’intero continente artistico e visuale paolozziano. La terza parte si concentra invece (attraverso i saggi di Michael Lüthy, Roberta Dreon, Davide Dal Sasso, Franceso Guzzetti) sull’influenza che la riflessione wittgensteiniana esercita sull’arte contemporanea (ad esempio sull’arte concettuale o sul post-minimalismo), e ne mette in luce le potenzialità, a partire dalle questioni (centrali nelle Ricerche filosofiche) del guardare-attraverso, dello scorgere somiglianze e del vedere-come. È così che, in uno scambio di sguardi tra «the Artist» and «the Philosopher» – ma anche tra artisti e filosofi (tali sono i vari autori) – l’opera di Paolozzi ritrova le sue radici filosofiche più profonde e il pensiero di Wittgenstein si rivela in tutta la sua «performatività» estetica e artistica.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento