Paolo Volponi, nelle due stanze dei dipinti corporali
A Urbino, Palazzo Ducale La donazione di Paolo Volponi, ventuno tele, perlopiù seicentesche, ha trovato una degna collocazione: Battistello, Preti, Ribera, Schedoni...
A Urbino, Palazzo Ducale La donazione di Paolo Volponi, ventuno tele, perlopiù seicentesche, ha trovato una degna collocazione: Battistello, Preti, Ribera, Schedoni...
In una lettera a Roberto Longhi del marzo 1970 Paolo Volponi riferisce entusiasta all’anziano maestro dell’ultimo addendo della sua privata collezione, una tela di Battistello Caracciolo, Lot e le figlie (che Ferdinando Bologna assegna alla produzione terminale), «quadro bellissimo – scrive Volponi –, addirittura tridimensionale e al suo interno ogni figura ha uno spazio proprio ed autonomo e una distinta posizione, appunto su tre dimensioni, le quali fanno perno intorno alla natura morta centrale, che sale dai piedoni fino al fiasco fatale al povero Lot».
Parola-chiave è «tridimensionale», nel senso che designa la densità materica, la fisica aggettante oltre il buio che la inquadra ma allude anche alla scrittura di Volponi, satura di estri visionari, tattili persino, versati in un invaso ribollente e in tutto massimalista. È noto peraltro che lo scrittore di Urbino amava appoggiare le sue tele al muro per poterle sfiorare, seguirne a dito le velature prominenti e i teneri scivoli delle pennellate. Fin dal dopoguerra amico dei pittori e degli incisori (da Luigi Bartolini ai Castellani, Bruscaglia e Ceci attivi nella sua città), dopo i trascorsi in Olivetti e Fiat dirigente di Finarte a metà degli anni settanta, esperto del mercato antiquario e assiduo alle aste (in una lettera da Londra a Gian Carlo Ferretti, del ’74, confessa reduce da Sotheby’s e Christie’s: «… come potrò pagarli? Anzi chi li pagherà? La mia sfrenata incoscienza da sola non basta…»), Volponi colleziona opere del Gran Secolo, preferibilmente di caravaggeschi, ma per eccezione può slittare all’indietro, come nel caso della sorridente Madonna col Bambino uscita dalla bottega di Vitale da Bologna, ovvero spingersi nel Novecento più austero ed è il caso di alcune stampe di Giorgio Morandi: sono eccezioni che confermano la regola di un gusto formatosi con Longhi e con la prima cerchia dei suoi allievi.
Già nel 1991, in ricordo del figlio Roberto perito nell’incidente aereo dell’Avana, Volponi aveva donato a Palazzo Ducale un lotto della propria collezione, poi integrato nel 2003, a nove anni dalla morte dello scrittore, per volontà della vedova Giovina Iannello e della figlia Caterina. Si tratta di ventuno dipinti per lo più di area emiliana e napoletana, databili fra il Tre e il Seicento, allora collocati in posizione anacronistica fra i campioni dell’Umanesimo al piano nobile dell’edificio, lungo un nudo e poco illuminato corridoio: solo adesso essi ritrovano una degna collocazione al secondo piano di Palazzo Ducale, ampliato e rinnovato dallo scorso luglio, su iniziativa del direttore Luigi Gallo, per ospitare la pittura del Sei e Settecento a partire dal grande Federico Barocci che Volponi sentiva consanguineo nel tratto liquido e sconvolto, dicendosi afflitto dalla impossibilità di acquistarlo.
Il nuovo allestimento della Donazione occupa due stanze e gode di un clima in cui il soffice lume dei faretti si armonizza con la luce che arriva sotto i Torricini, per le ampie vetrate, direttamente dalla Fortezza Albornoz. (Va ricordato che rare ma solenni erano le visite di Volponi in Palazzo Ducale, come quella riservata in esclusiva alla Flagellazione di Piero, nel febbraio del ’73, per una trasmissione della Rai-Tv il cui esito a stampa è ora annunciato dalle edizioni riminesi di Walter Raffaelli). Si arriva agli spazi volponiani procedendo a sinistra lungo un rettifilo interno che vede a destra i singoli vani, disposti a cannocchiale, e in fondo, ad angolo piatto, le stanze da cui occhieggia in lontananza l’impasto nel nero bitumoso del Sacrificio di Isacco, uno stupendo Mattia Preti che Tiziana Mattioli, la studiosa di Pascoli e Volponi che ci accompagna, valuta alla stregua di un segno distintivo, di un richiamo primario. Sono due sale di medie dimensioni e di tinta bianca e calda. La prima ha nel centro un’edicola lignea per accogliere, senza spezzare la cronologia, gli antecedenti tre-quattrocenteschi, non solo il citato Vitale ma fra gli altri una notevolissima Madonna dell’umiltà attribuibile al cosiddetto Simone dei Crocefissi come risulta dalla guida tuttora in uso, Le due Donazioni Volponi alla Galleria Nazionale delle Marche a Urbino, a cura di Paolo Dal Poggetto, edita da QattroVenti nel 2003 con la commossa prefazione di Enzo Siciliano che così ricorda l’amico collezionista: «Si innamorava, comperava: si innamorava d’altro, vendeva e comprava nuovi oggetti d’amore, o nuove immagini di quell’amore che aveva connotati difficili, forse, per lui stesso da decifrare».
Ancora nella prima sala spiccano un Giovanni Lanfranco illustratore del Furioso con un buio ma tenero, sensuale, Ruggero libera Angelica datato 1602, quando il pittore è reduce dalla guida di Annibale Carracci, poi un double sul serio culminante di Giovan Francesco Guerrieri da Fossombrone, il San Pietro in carcere (1620 circa), vertice drammatico del caravaggismo e infatti a lungo attribuito a Caravaggio medesimo, insieme con la raffinata e mesta Cleopatra, oggetto di studio di un altro grande amico dello scrittore, Andrea Emiliani.
La seconda sala, oltre a Mattia Preti e Battistello, propone d’acchito l’opera forse più cara a Volponi, la cui lunga ecfrasi è accolta nel romanzo urbinate per eccellenza, Il sipario ducale (1975), cioè il Ritratto del filosofo Origene, tela giovanile di Jusepe Ribera che sta lì «con aria di sfida, riassorbita però da una veggenza più altra e scettica», antipode dei quadri che le fanno da corona: un San Sebastiano del giovane Guercino, carnale e femmineo, riverso sotto un cielo blu cobalto («onanista, viola, mammolone, appoggiato all’aria»: la sequenza stavolta è in Corporale, 1974), un Salvator Rosa della prima maturità molto meno evanescente del suo stereotipo e anzi di evidenza palpabile (Disputa tra filosofi), l’Orazio Gentileschi del David in contemplazione della testa di Golia (1605 circa) e finalmente il David che contempla la testa decollata di Golia, un Guido Reni databile intorno al 1640, la cui violenza implode in una luce livida, cerea, in aperto contrasto con il sottolineato tenebrismo delle tele circostanti.
Andrebbe valutata a parte un’opera da cui Volponi ha tratto costante ispirazione sia letteraria sia etico-politica, La carità di Santa Elisabetta (1611 circa), vessillo pauperista di Bartolomeo Schedoni, «l’altro prediletto/ l’appassionato ravvoltolato Schedoni/ tra le bende della pietà e le/ splendenti lacche dei colori…», dirà nei versi di Con testo a fronte (1986). Sono i colori che risplendono sulla copertina di Corporale ma appartengono all’altro che siede con Barocci e Caravaggio nell’empireo dei sognati e irraggiungibili, Nicolas Poussin.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento