Se si vuole capire cosa è successo nelle società occidentali a metà degli anni ’80, «Le mosche del capitale» di Paolo Volponi è un libro imprescindibile. Descrive dal di dentro quel capitalismo italiano votato ai profitti e alla finanza che abbandonava la sua missione storica, di cui lo scrittore marchigiano aveva informazioni di prima mano avendo lavorato prima all’Olivetti, poi alla Fondazione Agnelli, dalla quale fu indotto alle dimissioni nel 1975 dopo aver fatto dichiarazione di voto al Pci.
Nei suoi libri il conflitto tra la misura umanistica e il caos della società neoliberista porta a forti combustioni . “Siamo infettati, contaminati, appestati. E corriamo” dice nel dialogo a due voci con Francesco Leonetti ne «Il leone e la volpe», libro che rimette in circolo tutto il pensiero e la sua storia di scrittore e uomo di industria nato nell’umanesimo rinascimentale di Urbino. E, di fatto, insieme a Pasolini, è quello che più di ogni altro ha opposto il suo pensiero a quel trapasso che con il declino della civiltà industriale, passando per la manipolazione dei media, porta fino all’oggi, cioè a quel «Finanzcapitalismo» di cui Gallino ha scritto in un libro di mirabile lucidità saggistica. La sua interrogazione, se pensiamo che arriva dal lontano 1994, angoscia più di una profezia: “Ciò che mi domando è: come mai siamo giunti al punto che la sola materia materiale diventasse il denaro. E come si fosse annullata la profondità del mondo.”