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Paolo Virno, la facoltà di sospendere, premessa al fare

Paolo Virno, la facoltà di sospendere, premessa al fareDa «Project T» di Rossella Biscotti e Kevin van Braak, Shkuc Gallery, Lubiana, 2017

Tra l’essere e l’abbondanza Segnate da una smaniosa paralisi, le forme di vita contemporanee hanno un eccesso inarticolato di capacità, inibite a convertirsi in atti appropriati: «Dell’impotenza», da Bollati Boringhieri

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 5 dicembre 2021

All’incrocio tra filosofia del linguaggio e antropologia filosofica, o meglio all’insegna di una peculiare antropologia linguistica, Paolo Virno raggiunge un ulteriore campo base nella scalata verso un materialismo radicale orientato alla «drastica trasformazione dello stato di cose presente», in Dell’impotenza La vita nell’epoca della sua paralisi frenetica (pp. 134, Bollati Boringhieri, 2021, € 13,00).

Il terreno è circoscritto da questioni e concetti affilati in un combattimento di lungo corso con i più algidi congegni logici e, soprattutto, dagli esiti di due studi che hanno fatto data: Saggio sulla negazione (Bollati Boringhieri, 2013) e Avere (Bollati Boringhieri, 2020). Fra quelle pagine Virno ci consegnava il profilo di un animale umano irrevocabilmente distanziato dal suo corredo istintuale e da tutto quanto possiede: facoltà, capacità, esperienze, la sua stessa vita.

Proprio in virtù di questo deficit di identificazione, il vivente che ha il linguaggio – così la definizione aristotelica – può aprire nel «noi» originario il varco verso una socialità di secondo livello, complessa e duttile, negoziale e imprevedibile.
Con questo bagaglio acuminato, Virno si cimenta ora nella diagnosi della malattia d’epoca, nell’individuazione del suo veleno e finanche in una «scarna» indicazione dell’antidoto.

«Le forme di vita contemporanea sono segnate dall’impotenza. Una paralisi smaniosa presidia l’azione e il discorso». Non si tratta di una malattia della scarsità, bensì di un portato dell’abbondanza. L’impotenza contemporanea è dovuta all’eccesso inarticolato di potenze, capacità, abilità che non riescono a convertirsi in atti appropriati, al pari di un motore che romba freneticamente con la marcia in folle.

Dall’avere all’essere
La forma classica della questione in gioco consiste nella relazione tra potenza e atto, dynamis e energheia – cui Aristotele riserva il famoso libro IX della Metafisica. Replicando ai «filosofi di Megara», per i quali «senza atto, non c’è potenza», Aristotele afferma che una facoltà sussiste anche al di là del suo esercizio, che quel che conta è avere una potenza, pur se latitano gli atti corrispondenti. Virno vi riconosce una mossa cruciale: spostando la relazione con la potenza dal piano dell’essere a quello dell’avere, dall’identità alla mera pertinenza, Aristotele autorizza anche una nozione di impotenza che conserva il pieno possesso della sua dynamis benché non si converta in atti. Esattamente di questo tipo è l’impotenza che contraddistingue la vita quotidiana nel capitalismo maturo.

Nello stacco logico e antropologico aperto dall’avere si posiziona innanzitutto il risalto solitario conquistato dall’impotenza di fare: lo stato ipnotico che paralizza l’animale umano quando coglie la natura ambivalente di ogni potenza; la «rivelazione» malinconica della potenza che pur ci appartiene proprio quando non riesce a tramutarsi in atti, il catalogo di passioni tristi e ossimoriche che ne deriva: «arroganza maculata di avvilimento, sfrontata timidezza, allegria dei naufragi, bellicosa rassegnazione, solidarietà digrignante».

Ma più che l’impotenza di fare, nelle forme di vita contemporanea predomina l’impotenza di subire. Mancano – sono venuti meno – atti di accoglienza, rituali, gesti pertinenti con i quali ricevere in modo appropriato le azioni di cui siamo fatti oggetto. «Le forme di vita contemporanee, in cui predomina l’incapacità di sopportare, sfoggiano un alto grado di reattività. Gesti plateali e stizziti dei quali è garantita in anticipo l’assenza di conseguenze».

A una speciale potenza di terzo tipo – qui chiamata facoltà di sospendere – sono attribuiti quegli atti ubiqui che introducono nella prassi degli spazi bianchi. Sono le azioni negative – omissioni, rinunce, differimenti – volte unicamente a non fare o a non ricevere. Da quando sono scomparse le abitudini collettive che consentono di differire gli atti «a tempo debito», questa facoltà rivela un’indole particolarmente sinistra, capace di istituire un vero e proprio «stato di impotenza» generalizzato e permanente.

Sul piano dei requisiti logici, tuttavia, la facoltà di sospendere lascia intravedere anche uno spiraglio di contravveleno: applicabile a tutte le facoltà, essa non può non applicarsi riflessivamente anche a se stessa, sospendendo le condizioni che alimentano lo stato di impotenza. Per sabotarla, basterebbe dunque fare ricorso «a quella sorta di esercizio spirituale (e politico) che è la rinuncia a rinunciare».

Resta da capire come questo ricorso si inneschi. Una facoltà si attua solo se la sua indole magmatica e amorfa viene modulata, frenata, circoscritta. A questo fine erano specializzati certi operatori preliminari collocati nell’area intermedia tra potenza e atto: gesti cerimoniali, differimenti a tempo debito, ma anche mansioni che orientavano le generiche potenze compresse nella forza lavoro e giochi linguistici che fornivano repertori argomentativi impersonali.

Gli smottamenti più distruttivi dell’epoca postfordista hanno interessato proprio questa «regione degli atti potenziali», rendendo indisponibili i suoi operatori: «Alla radice dell’impotenza da cui sono afflitti gli attori della comunicazione centrifuga, i lavoratori intermittenti, la moltitudine renitente alla democrazia rappresentativa vi è l’insufficiente limitazione di una potenza esuberante».

La stessa abitudine, vero e proprio anello di congiunzione con le nostre facoltà, non soccorre, attraversata come è da una guerra civile in cui risulta vittoriosa la sua disposizione «amministrativa» – che mira alla sola gestione della potenza e si risolve in un training frenetico e compulsivo di facoltà rigorosamente inattuate – e perdente la sua disposizione attiva, che fa leva sull’uso.
Dunque, che fare? Su che cosa puntare?

Tra pericolo e salvezza
A conclusione transitoria, Virno avanza alcune «scarne considerazioni» sull’ipotetico antidoto alla malattia d’epoca, «considerazioni logiche, non ancora etiche, né tantomeno politiche». Esclusa ogni istanza nostalgica – componente non secondaria del male che si vorrebbe curare – non resta che fare leva sulla disposizione attiva dell’abitudine, cioè sul suo carattere di uso, per pervenire a una struttura impersonale, autonoma, collettiva che, fungendo da anello intermedio, garantisca un regolare passaggio all’atto.

Sono le prerogative di una istituzione di profilo nuovo, divergente rispetto a quelle sorte sul terreno della sovranità statale e interamente dispiegata dall’esercizio dell’uso. Sue operazioni preliminari – capaci di ripopolare la devastata regione degli atti potenziali – sono gli esperimenti che inaugurano processi o stati di cose agendo come prototipi, a un tempo unici e ripetibili. Questa istituzione è l’immagine simmetrica e speculare dell’impotenza seguita alla sconfitta delle lotte operaie proliferate all’interno del fordismo e del keynesismo. Vi aderisce come un guanto, «o meglio vi aderisce come il guanto della favola, desideroso di farla finita con la mano che ricopre».

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