Italia

Paolo Vineis, curare con la politica

Paolo Vineis, curare con la politicaIl temporary hospital al Krylatskoye Ice Palace di Mosca; in basso Paolo Vineis – Ap

Intervista Parla l’epidemiologo, ordinario all’Imperial College di Londra e vicepresidente del Consiglio Superiore di Sanità: «Con il Covid-19 abbiamo aperto gli occhi sul fatto che salute e malattia vengono da lontano, dipendono anche dalla società e dalla sua struttura produttiva»

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 21 novembre 2020

 

Paolo Vineis è ordinario di epidemiologia all’Imperial College di Londra e vicepresidente del Consiglio Superiore di Sanità. È uno degli ospiti più attesi all’edizione 2020 del National Geographic Festival delle Scienze in cui interverrà online lunedì 23 novembre. Nel suo ultimo saggio intitolato Prevenire (Einaudi) scritto con Roberto Cingolani e Luca Carra, Vineis propone una strategia contro problemi globali come il cambiamento climatico o la pandemia fondata sui co-benefici. «Sono misure politiche che possono portare vantaggi in settori diversi.

Ad esempio, il consumo di carne è associato a una maggiore incidenza di malattie cardiovascolari e di alcuni tumori. Ma può anche aumentare le emissioni di metano e contribuire al rischio di pandemie, perché gli allevamenti intensivi sono serbatoi di virus. Il Green New Deal è un esempio di questo tipo di azioni che generano co-benefici: prevede azioni radicali per prevenire il cambiamento climatico e genera benefici anche in altri settori come la salute e l’equità sociale.

Anche secondo il direttore di Lancet Richard Horton, il Covid-19, le altre patologie e le condizioni ambientali e socio-economiche si aggravano a vicenda. Invece di pandemia dovremmo parlare di «sindemia». La convince?

Nel Consiglio Superiore di Sanità ho coordinato la redazione di un documento di commento al Piano Nazionale della Prevenzione 2020-25 e sulle malattie croniche non trasmissibili adottavamo proprio il punto di vista della sindemia. Mirko Grmek, forse il maggiore storico della medicina del secolo scorso, parlava di «patocenosi» e sosteneva che le malattie in un certo momento storico, anche quelle infettive, vanno viste nel loro insieme. La trasmissione delle malattie si può studiare con una lente più complessa di quella ancora dominante nel mondo medico, che cerca l’origine delle patologie principalmente in alterazioni molecolari. Noi guardiamo invece alle cause sociali, storiche e produttive, inclusa la globalizzazione.

Nel precedente Salute senza confini (Codice) parla del conflitto tra la medicina centrata sull’individuo e la prevenzione a livello di comunità.

Sono due visioni della malattia e della prevenzione non contrapposte ma complementari. Da un lato la cosiddetta medicina di precisione punta a curare a partire dalle caratteristiche individuali, in particolare quelle genetiche. Dall’altro c’è la medicina di comunità. L’enfasi sulla responsabilità personale, seppure giusta, non è sufficiente: la prevenzione delle malattie basata sulla promozione della salute attraverso il miglioramento degli stili di vita individuali ha funzionato limitatamente, perché l’educazione sanitaria trova ascolto soprattutto nelle classi più agiate. È una lezione dell’economista indiano e premio Nobel Amartya Sen: non sempre gli individui sono liberi di scegliere, e questo è uno dei nodi di fondo della salute di comunità.

Però le strategie di protezione di comunità talvolta vengono rifiutate perché percepite come invasioni della sfera privata.

Soprattutto negli Usa, gli interventi di sanità pubblica come la tassazione delle bevande zuccherate sono stati visti da alcuni come paternalistici. Questo contrasto tra sanità pubblica e libertà di scelta riflette filosofie diverse e anche un malinteso sul concetto di libertà: libertà intesa in senso ultraliberale (faccio quello che voglio) o libertà come responsabilità verso gli altri, prendendo atto anche della rete di relazioni in cui ciascuno è inserito. Si pensi all’uso delle mascherine e ai comportamenti che oggi ci vengono richiesti proprio in base al nostro senso di responsabilità. Ma mi pare che il Covid-19 ci abbia aperto gli occhi sul fatto che salute e malattia vengono da lontano, dipendono anche dalla società e dalla sua struttura produttiva. Il virus ci ha convinti della necessità di uno sguardo più complesso sulle malattie. Tutto questo ci porta a vedere la salute come un bene comune, da proteggere in quanto tale.

Anche i vaccini anti-Covid saranno rifiutati in quanto «paternalisti»?

La diffidenza nei confronti dei vaccini anti-Covid è determinata da tre componenti. Una è il residuo della cultura No Vax legata a atteggiamenti antiscientifici. Sono posizioni che non vanno liquidate con giudizi di valore ma è un fatto che esse negano il dato scientifico. In secondo luogo c’è un giusto atteggiamento di prudenza. Anche io sono contento che i vaccini Pfizer e Moderna siano efficaci, ma nessuno sa quanto duri la protezione e quali siano gli effetti collaterali. Non esiste un precedente di una richiesta di approvazione di emergenza di un vaccino presso la Fda in assenza di una lunga fase di follow up dei volontari vaccinati. Siamo costretti a esprimerci rapidamente sul bilancio tra i probabili benefici – con incertezze – e i rischi ancora non completamente conosciuti, anche se quasi certamente molto inferiori ai benefici. Poi c’è una terza componente: i conflitti commerciali e addirittura dalla geopolitica. C’è una competizione internazionale tra Unione europea, Stati uniti, Russia e Cina a chi arriva per primo al vaccino. Anche questo succede per la prima volta con questa velocità.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento