Paolo Uccello, fulmine a ciel sereno a Bologna
Folgorazioni / Storici dell'arte: Carlo Volpe Nel 1980 riconobbe quale opera del vertiginoso prospettico toscano l’affresco (mutilo) con la "Natività" in San Martino Maggiore: una scoperta spartiacque. Allievo a largo spettro di Roberto Longhi, Volpe rovesciò in questo modo le posizioni del maestro sia sul «curriculo» di Paolo di Dono sia sul ruolo storico del Quattrocento felsìneo
Folgorazioni / Storici dell'arte: Carlo Volpe Nel 1980 riconobbe quale opera del vertiginoso prospettico toscano l’affresco (mutilo) con la "Natività" in San Martino Maggiore: una scoperta spartiacque. Allievo a largo spettro di Roberto Longhi, Volpe rovesciò in questo modo le posizioni del maestro sia sul «curriculo» di Paolo di Dono sia sul ruolo storico del Quattrocento felsìneo
Un’opera fuori contesto, a maggior ragione un capolavoro, è sempre spiazzante. È illuminante, in questo senso, rileggere la vicenda critica della Madonna Rucellai del senese Duccio, già in Santa Maria Novella a Firenze e oggi agli Uffizi. Considerata fin dal Trecento un’opera di Cimabue, il grande maestro fiorentino contemporaneo di Duccio, anche e prima di tutto in ragione della sua collocazione, la prestigiosa tavola venne restituita al suo legittimo autore solo con molte esitazioni da parte della critica (notevoli quelle di Bernard Berenson e di Pietro Toesca), nonostante fin dal 1790 fosse stato pubblicato il documento di commissione del 1285. Sembrava difficile che un senese avesse dipinto un’opera di quell’importanza, e a quella data, per una delle maggiori chiese dell’arcinemica Firenze.
Quando nel 1977 venne scoperto un affresco mutilo con la Natività in San Martino Maggiore a Bologna, che si presentava immediatamente come un capolavoro di ricerca prospettica quattrocentesca, coloro che per primi lo videro pensarono al ferrarese Francesco del Cossa, artista certamente di casa a Bologna, dove nel 1472-’73 dipinse (assieme ad Ercole de’ Roberti) il Polittico Griffoni che proprio in questi mesi è stato per la prima volta ricomposto e si può ammirare in una mostra allestita in Palazzo Fava a Bologna. Dopo un lungo intervento conservativo, nel corso del quale era stato studiato solo da restauratori e funzionari della Soprintendenza, l’affresco venne scoperto al pubblico alla fine del 1979, e in quel momento poterono vederlo anche tanti altri studiosi, tra i quali Carlo Volpe (1926-’84).
I senesi e i riminesi del Trecento
Bolognese, egli si era formato nella sua città negli anni del magistero di Roberto Longhi (1934-’49), specializzandosi da subito nella pittura del Trecento senese, in particolare Pietro Lorenzetti, ma indagando anche la scuola giottesca (nel 1965 egli dava alle stampe la sua fondamentale ricostruzione del Trecento riminese, edita da Mario Spagnol). Ma Volpe, da subito, era stato uno studioso a tutto campo, occupandosi anche di pittura del Rinascimento, e spingendosi fino al Sei e Settecento; Bologna è stata molto spesso al centro dei suoi interessi, con interventi fulminanti su Ludovico Carracci (al quale restituì un sorprendente San Vincenzo passato sul mercato come un veneto del Settecento!) su Giuseppe Maria Crespi. Senza dimenticare la sua attività come critico militante, le incursioni non rare nel contemporaneo e la lunga frequentazione dello studio di Giorgio Morandi, comune del resto in quegli anni a molti allievi di Longhi.
Appena vide la Natività di San Martino, Volpe ne riconobbe immediatamente la mano grazie alla sua eccezionale conoscenza della pittura italiana: si trattava di un capolavoro del fiorentino Paolo Uccello, un pittore che a Bologna era quanto mai fuori contesto. Nel suo articolo del 1980 con cui rese noto l’affresco, Volpe non poté sorvolare del tutto sugli scivoloni di coloro che, pur meritoriamente impegnati sul fronte della tutela, si mostravano poi poco avvezzi nel campo della connoisseurship. Sebbene mai menzionato, il bersaglio era Andrea Emiliani (1931-2019), anch’egli come Volpe allievo di Longhi, formatosi prima a Bologna poi a Firenze, che era stato uno dei fondatori, nel 1974, dell’Istituto per i beni culturali, artistici e naturali dell’Emilia Romagna (IBC), e dal 1978 era soprintendente dei beni artistici di Bologna. Da sempre impegnato nel mondo della tutela, grande studioso della storia della legislazione e dei musei, Emiliani era certo un longhiano sui generis, assai meno attrezzato di Volpe nelle vesti di conoscitore.
Con il senno di poi, si potrebbe dire che la Natività di San Martino tradiva inequivocabilmente la mano di Paolo Uccello, non solo per la vertiginosa costruzione prospettica, ma anche per il carattere lunare, favoloso, dell’invenzione quasi astratta; e infatti quell’acquisizione non è mai stata messa in discussione. È notevole, peraltro, come Volpe arrivasse a formulare l’attribuzione dovendo fare quasi del tutto a meno dei più riconoscibili particolari morelliani, poiché i volti dei protagonisti sono in gran parte perduti, ad eccezione del san Giuseppe, che evocava a Volpe il confronto con gli eroi mantegneschi della Cappella Ovetari di Padova, ma non trovava un adeguato riscontro con altri volti del corpus di Paolo. Allo studioso però non sfuggiva un altro particolare rivelatore, ovvero l’impiego delle punte di diamante nella cornice dell’affresco bolognese, un motivo che si ritrova nel basamento del Giovanni Acuto di Santa Maria del Fiore (1436), capolavoro tra i più noti del maestro.
L’attribuzione della Natività a Paolo Uccello portò naturalmente Volpe a mettere in discussione una tesi cara al suo maestro, quella del «curricolo ritardatissimo» del pittore, che secondo il Longhi della maturità non sarebbe stato affatto uno dei padri del Rinascimento fiorentino, quanto piuttosto un pittore capace di aprirsi alle novità di Masaccio, Angelico e Domenico Veneziano solo a partire dalla metà del Quattrocento. L’affresco di Bologna, che una data graffita permetteva di riferire agli anni Trenta, consentiva a Volpe di mettere un punto fermo nelle discussioni sulla dibattuta cronologia dell’opera di Paolo, e di restituirgli un ruolo di innovatore e sperimentatore.
Tutto questo, Volpe lo pubblicò in un articolo apparso sulle pagine di «Paragone», a dieci anni dalla scomparsa di Longhi, nel quale l’allievo, pur tra tanti distinguo, pagava il suo debito al maestro, facendo proprio quello che era un profondo convincimento longhiano: «La storia dell’arte è fatta di opere, di fatti e persone prime; di date e di relazioni; soprattutto, alla fin fine, di relazioni». Stabilire la datazione delle opere di Paolo, dagli affreschi di Prato alle celeberrime tre tavole con la Battaglia di san Romano, significava stabilire quali erano stati i suoi rapporti di dare e avere con i grandi contemporanei; e la conclusione di Volpe, opposta a quella di Longhi, era che Paolo aveva dialogato con loro da pari a pari.
L’articolo tenuto in «stand by»
Il riferimento della Natività a Paolo Uccello era spiazzante anche perché faceva in parte saltare altre griglie cronologiche: quell’affresco precedeva di circa quarant’anni quello che, sulla scorta dell’opinione fin troppo autorevole, a volte, di Longhi, si considerava l’alba del Rinascimento bolognese. In un suo precedente articolo Volpe aveva già cercato di scardinare l’assioma, proclamato nell’Officina ferrarese del 1934, secondo cui Felsina, nel Quattrocento, non era stata molto di più che la provincia di Ferrara, e per tutta risposta il suo maestro aveva tenuto quell’articolo in stand by, senza rifiutarlo ma senza neanche pubblicarlo su «Paragone» (sarebbe poi uscito nel 1958 in «Arte antica e moderna»). Curiosamente, proprio Longhi, che aveva quasi inventato dal nulla il concetto di scuola bolognese del Trecento, era stato restio a riconoscere una specificità del Quattrocento felsineo. In quell’articolo Volpe, forse il più longhiano tra i longhiani, si era prodotto in veri e propri calchi dell’immaginifica prosa del maestro: il Cossa vi compariva come «un artista che si educò nella cultura di Schifanoia e che in seguito rimeditò quel fulgido calendario figurato sotto una costellazione assai meno arcana e complicata, nell’assolato fervore feriale, anzi, delle successive giornate bolognesi». Quelle assolate giornate bolognesi, certo, andavano lette in rapporto dialettico – quasi come un omaggio – con l’«aria che si abbuia appena» della Notte di Guercino evocata nell’immortale chiusa dell’Officina.
Ma Volpe aveva altresì anticipato almeno agli anni sessanta del Quattrocento la nascita di un Rinascimento proprio di Bologna, sottilmente diverso da quello di Ferrara. La scoperta di quell’affresco in San Martino confermava allo studioso il ruolo di crocevia giocato dalla città nelle vicende del Rinascimento padano, anche, magari, prima del 1460 circa, in anni in cui aveva lasciato in città il suo capolavoro Jacopo della Quercia (portale di San Petronio), quando vi aveva verosimilmente lavorato Piero della Francesca (lo attestava Luca Pacioli) e quando forse vi aveva soggiornato lo stesso Donatello. Volpe non forzava certo la mano, riconoscendo che solo più tardi altri maestri, a partire da Marco Zoppo, avevano recuperato «temi e idee che Paolo Uccello aveva per tempo consegnato ad un ambiente e ad una società che ben poco ne avevano potuto intendere». La scoperta di quell’affresco, però, incoraggiava ad essere ottimisti: «prima di pronunciare anche questa sentenza attendiamo con seria attenzione il responso sempre in progress, e sempre aperto a nuovi quesiti, dei buoni studi». In questa chiusa credo si legga chiaramente l’amore di Volpe per Bologna, il suo impegno per ricostruirne puntualmente le vicende storico artistiche, sebbene si debba ammettere che ancora oggi la Natività di San Martino ci sembri, a Bologna, un’opera fuori contesto da ogni punto di vista, culturale e cronologico, un fulmine a ciel sereno che non ebbe immediato seguito.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento