«Che fine ha fatto Paolo Nutini?», ci si era domandati durante la prolungata irreperibilità del giovane scozzese, la cui discografia appare ormai scandita a intervalli crescenti secondo serie di Fibonacci: tre anni da These Streets (2006) a Sunny Side Up (2009), un lustro di gestazione per Caustic Love (2014), infine otto anni di assenza prima di questo Last Night in the Bittersweet (Atlantic Records).
Che rispetto all’album precedente, risolutamente soul, alleggerisce di molto il peso specifico dell’ottone: i fiati infatti recedono per lasciare in primissimo piano un organico elettrico voglioso di cimentarsi con varianti rock e rispettivi modelli sonori. Intenzionale o meno, l’incongruenza stilistica tra i sedici brani fa dell’album una confederazione musicale in cui la componente celtica punteggia la tracklist con parentesi folk corredate da marcato accento scozzese — Stranded Words, Abigail, Writer — per poi attraversare l’Inghilterra post-punk fino a cercare il Krautrock oltremanica.

Intenzionale o meno, l’incongruenza stilistica tra i sedici brani fa dell’album una confederazione musicale in cui la componente celtica punteggia la tracklist con parentesi folk corredate da marcato accento scozzese

RIEMERGONO chitarra e basso, accettando di buon grado i canonici andamenti a crome ribattute; risalta ovviamente la voce, di cui Nutini sembra voler subito presentare nuovi registri facendo il verso a Robert Plant nell’iniziale Afterneath — affidata al prolungato sampling del tarantiniano True Romance — confermando poi le affinità con Rod Stewart, ma anche con la Kim Carnes di Bette Davis’ Eyes (si ascolti Radio) e, in minor misura, con Michael Stipe e Tim Buckley. A stemperare il disagio dell’abbondanza, se vogliamo, è proprio il carattere dolceamaro indicato dal titolo, prevedibile dichiarazione di spleen sonoro appaiato a testi fatti per sviscerare le più classiche dinamiche amorose. Prevedibile è pure il discorso armonico, ritmico e dinamico, tanto da scivolare a volte nel déjà-vu: accade ad esempio in Petrified in Love e Shine a Light, fatta di rullanti anni ‘80 e inflessioni melodiche tra Springsteen e Bono. Prevedibile, infine, la quota ballad: Julianne si candida senz’altro a futuro classico, ruolo cui ambiscono anche Through the Echoes, Everywhere e Take Me Take Mine. Il che, tirando le somme, riscatta la disomogeneità con una manciata di ottimi brani pronti per il rodaggio live (dopo l’esordio britannico, Nutini sarà in Italia per tutta la seconda metà di luglio). E riscatta almeno in parte otto anni di riflessione da cui, forse, era lecito attendersi anche di più.