Che i versi possano essere assimilati a una lettera che va per il mondo è un’idea che rispunta, qua e là, nella storia della poesia. Andrea Zanzotto li pensava come una missiva che si allontana, ma torna infine al destinatario, alludendo così anche al lato autoreferenziale, a rischio di narcisismo, della scrittura poetica.

Credo che il titolo della nuova raccolta di Paolo Lanaro, Versi spediti a una cassetta postale (Apogeo editore, pp. 70, € 15,00), si ricordi forse soprattutto di una voce a lui molto cara, quella di Emily Dickinson. «This is my letter to the World», dice una splendida lirica dell’americana: quel mondo che non si fa mai vivo, e al quale si scrive senza sapere chi raccoglierà questa bottiglia affidata al mare («Her Message is committed / to Hands I cannot see»). Del resto, Scrivere lettere era già il titolo di una sua lirica di una trentina d’anni fa: «Ma sì, correre via dalla propria vita / fa scrivere lettere, per potervi tornare», con l’identificazione precoce di una poesia che si dà come vraie vie, ma solo in quanto absente: un’esperienza dolorosamente paradossale.

Quelli di Lanaro – un nipotino di Rimbaud nato non a Charleville ma a Schio, nel vicentino, classe 1948 – sembrano insomma, da sempre, versi scritti per incontrare qualcuno, sia questo nel presente o in un passato cui si torna per via di immaginazione e di memoria (e queste due dimensioni, in un poeta assediato dai ricordi, finiscono spesso per toccarsi). O anche: versi scritti per mettere in salvo qualcosa. Trovo in un suo autoritratto dell’anno scorso, nella prefazione che apriva l’auto-antologia Un giorno dopo l’altro. Poesie scelte 1981-2021 (uscita per Ronzani), alcune righe dedicate a poeti come Betti e Novaro, che però dicono forse qualcosa anche di lui: capace, come i citati, «di costruire versi abbastanza facili, ma in grado di suscitare un piccolo incanto nel lettore, fatto di suoni conosciuti, di magici déjà vu, di ricordi ripescati con perizia dall’oblio». Ma in Lanaro c’è poi molto di più. C’è, per esempio, una specie di pathos – di lutto? – della Storia, con le sue speranze e le sue lotte, variamente alluse e abbandonate. Non sarà un caso, per esempio, che fra i destinatari immaginati per questa raccolta ci sia – scrive Lanaro nella breve Nota che apre il libro – «un passeggero in partenza dalla stazione Finlandia di San Pietroburgo»: la stazione in cui si compie il ritorno dall’esilio di Lenin, il 16 aprile 1917.

Se esiste un’atmosfera stilistica, un modo di scrivere indebitato con il secolo che non c’è più, se ne trova senz’altro traccia nei versi di Lanaro (che comincia proprio con una lirica intitolata Novecento). Questa raccolta è anche un referto più o meno implicito delle piccole o grandi «lesioni» che attraversano gli ultimi decenni, con tutto quel che è andato in frantumi: «la dottrina della Chiesa, l’Età dei Lumi, / lo stato sociale, gli accordi di Yalta, / il mito giapponese, la parità euro-dollaro, / il lavoro salariato, il terzomondismo, / la letteratura del rifiuto, / le idee di Kerouac». Il più chiaro correlato formale di questo senso di perdita, personale e collettivo, è proprio l’elenco, come si vede nei versi appena allegati («incollo e copio, produco elenchi», si legge in Collage). Registrare, raccogliere e custodire è una delle attitudini fondative di questo poeta (Rubrica degli inverni si intitolava, peraltro, uno dei suoi lavori più belli, uscito per Marcos y Marcos nel 2016). E le sue rubriche possono riguardare l’epoca, il tempo di tutti, così come le proprie vicende personali, un ‘cenno biografico’ («i ponti attraversati: Parigi, Salisburgo, / Venezia con tutto l’Oriente di spezie e allume…»: è l’attacco di una delle liriche della sezione Chi fossimo, che è forse la più intensa e la più stilisticamente compatta di tutto il libro).

La bellezza dei versi di Lanaro è quella di certe soffitte che raccontano – ancora umanamente – una vita, mentre fuori infuria il progresso con i suoi gesti funzionali: con la sua violenza cieca che non risparmia né la natura («Spariranno le cetonie? / le cimici? le vespe? / i ghiacciai si ritireranno?») né una socialità ormai insensata, intesa al «controllo algoritmico della fin du monde». Difficile non sentire, in ognuno di questi versi, il desiderio di poter «torcere il collo al tempo» e la nostalgia per il mondo di ieri, per l’«Europe aux anciens parapets». Ma il battello ebbro di Lanaro è giunto a un porto fatto soprattutto di amare constatazioni, una vecchiaia dalla quale il mondo si rivela ormai un luogo «senza soluzioni» e «un inverno non può essere / più di un inverno». Resta, però, almeno lo sfavillio momentaneo di un colore, di un dettaglio: perché «la miniera delle immagini è ricca, come una boîte / che contiene messaggi, ori, piccoli e grandi segreti, / e ci rende sfarzosi nei rimpianti». Così i suoi versi, mentre proclamano l’inevitabilità di un presente deludente («tenetevi / il vostro mondo così com’è e saluti»), coltiva silenziosamente qualche altra possibilità, qualche spiffero dall’altrove: si possono anche immaginare degli «uccelli» che «guardano distratti gli uomini», o dei pesci impassibili davanti al disastro del mondo; o si può pensare che il nostro pianeta sia osservato «da una stella lontana miliardi di anni luce»: pensare il non-umano, come in un’operetta morale nella quale la dolcezza della malinconia vinca però sulla lama tagliente del disincanto.

Ad avvolgere tutto resta la nebbia protettiva della Letteratura: un verso di Montale da riattare abilmente, il ricordo di Robert Walser e delle sue solitudini, una citazione da Fernando Bandini col suo «manto episcopale» o l’immagine di Giuliano Scabia – diventato «un angelo / con le ali fresche e leggère» – su cui si chiude ariosamente. Le parole dei poeti sono fitte brucianti, ma anche compagne delicate: ci ricordano – e lo ricordano a chi scrive – che resta «una riga di luce» verso cui si protendono i rami di un albero, anche dentro il «flagello» della cattiva stagione.