Visioni

Paolo Fresu: nel mito la doppia maschera di Miles Davis

Paolo Fresu, immagine tratta da "Berchidda Live", 2023Paolo Fresu – immagine tratta da "Berchidda Live", 2023

Musica Un progetto, teatrale e discografico, che il musicista sardo ha dedicato al grande trombettista. Sul palcoscenico anche nella veste di autore, attore e band leader di uno smagliante settetto

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 17 novembre 2024

Abbiamo bisogno, oggi, dei miti e di quello di Miles Davis? Come si può raccontarne l’universo creativo e visionario intrecciandolo al suo repertorio non clonandolo ma reinventandolo? A queste e ad altre domande sta rispondendo Kind of Miles di Paolo Fresu, opera musical-teatrale (oltreché progetto discografico in cd e vinile, Tuk Music) di novanta minuti – prodotta dal teatro stabile di Bolzano, regia di Andrea Bernard.

Partito da Bolzano il 23 ottobre, lo spettacolo ha toccato sinora Torino e Milano e sarà (sino al 26 gennaio 2025) nei teatri di Bologna, San Marino, Genova, Udine, Treviso, Voghera, Chiasso, Trieste, Savona e Pontedera, per un totale di oltre cinquanta repliche.

Fresu – che è attore-autore-musicista-leader – è in compagnia di uno smagliante settetto con Filippo Vignato (trombone, multieffetti, synth), Dino Rubino (piano, Fender Rhodes), Bebo Ferra (chitarra elettrica), Marco Bardoscia (contrabbasso), Federico Malaman (basso elettrico), Christian Meyer e Stefano Bagnoli (batteria).

Miles Davis, 1987
Miles Davis, 1987 – foto Ansa

Hai già alle spalle una serie di repliche, come procede lo spettacolo?

Sono molto soddisfatto perché è stata un po’ una sfida per me. All’origine l’idea era quella di portare in teatro un testo che avevo scritto su Miles e di affidarlo ad una sola voce recitante, con otto musicisti e quelli sono il «corpus» della pièce. Walter Zambaldi, direttore del teatro stabile di Bolzano, mi ha detto: «Ma perché non lo reciti tu?». Alla fine mi sono buttato in quest’esperienza attoriale a 63 anni. È stato complesso perché mi devo splittare in due parti diverse: quella del testo che deve essere imparato a memoria e poi switchare immediatamente nella partitura musicale.

È un lavoro composito dove ci sono tanti linguaggi che si fondono, lavoro che può sempre crescere e sicuramente crescerà. Molti addirittura hanno detto che bisognerebbe portarlo nelle scuole, perché ha un carattere divulgativo: anche una persona che non conosca il jazz, che magari voglia approfondire cos’è il senso della musica, posto che ce ne sia solo uno, in qualche modo può aiutare a svelarlo.

Come si struttura «Kind of Miles»?

Non è la vita di Davis, è diverso rispetto a Tempo di Chet: narriamo la sua filosofia, le sue passioni, le sue visioni… C’è una parte in cui racconto il mio apprendistato, quando ascoltando Autumn Leaves, la suonavo con il gruppo di musica leggera – nella versione eseguita da Miles al festival di Juan-les-Pins, la musica era così lunare che non avevo neanche riconosciuto la melodia, il tema.

È entrato nella leggenda perché ha anticipato i tempi, perché ha aperto le porte dove noi siamo potuti entrare, perché c’è sempre stata una visione che ha guardato avantiPaolo Fresu

E lì mi sono appassionato al jazz e racconto del tempo che passavo a trascrivere gli assoli, soprattutto quello di Round Midnight (versione 1957, in un lp Columbia) e perché mi sono appassionato all’uso della sordina, che cosa è il suono interiore e quali sono state di Miles le sue lotte, le sue passioni… Diciamo che è un racconto un po’ autobiografico che porta avanti due linee: tratteggiare minimamente Miles, soprattutto nel momento storico, e anche ripercorrere il mio apprendistato per poi raccontare– in maniera onesta e sincera – cosa trovo nella musica di Miles Davis, la sua essenza…

Perché oggi abbiamo bisogno del mito di Miles Davis che, – come hai scritto – pur essendo immerso nei suoi anni, opera con un «collegamento temporale che cancella le distanze e dilata il tempo»?

Sono parole che utilizzo nello spettacolo. I miti di oggi si accendono e si spengono come una stella cadente, sono passeggeri e repentini mentre il mito è qualcosa che ha a che fare con la storia, con i linguaggi. Io non mitizzo: ritengo che come uomini si sia tutti uguali, ma esiste un mito nel momento in cui qualcuno sedimenta qualcosa che viene regalato e messo nelle mani degli altri. Da questo punto di vista sì, possiamo considerare Miles un uomo mitico perché ha anticipato i tempi, perché ha aperto le porte dove noi siamo potuti entrare, perché c’è sempre stata una visione che ha guardato avanti.

Se noi oggi siamo qua in buona parte è anche merito di Davis. Miles – ma anche Coltrane e Parker – si possono considerare «uomini mitici» nel momento in cui il loro verbo, pensiero, ciò che hanno fatto continua ad essere attuale. Da questo punto di vista, è un mito che ha a che fare con il tempo, continua ad essere un elemento di discussione e scoperta. Mi piaceva l’idea di legare un mito classico – quello della civiltà mediterranea – a Miles, non dimenticando che l’africanità è stata molto presente nella sua vita e musica e come lui abbia inseguito fino alla morte (1991) l’idea di dover cercare un riscatto. Una ricerca esasperata del successo, la passione per il lusso, le macchine, le donne… è come se fosse una sorta di manifestazione, neanche troppo nascosta, del suo bisogno di affermarsi.

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In Davis c’è anche un aspetto di corporeità straniante cui allude anche la copertina del cd in cui si evoca il volto di Miles in «Tutu» ma diventa, attraverso il tuo, una maschera antica e totemica. L’iconicità davisiana è sonora e simbolicamente possente.

Può ricordare la maschera del riso sardonico sarda. Davis ha sempre avuto una fisicità molto riconoscibile con quella sua forma ad esse. Dico, nello spettacolo, quasi a cercare il suono nella terra però, nello stesso tempo, a volersene allontanare. La posizione ad esse, molto tipica di Miles, è in qualche modo anche mia: c’è una ricerca perenne del suono, in modo che la sua posizione fetale creasse quell’incredibile magia per cui gli spettatori rimanevano incollati davanti a lui.

Le posizioni di Miles erano profondamente legate al suo strumento, alla sua idea di costruzione sonora. Diceva che la musica e la vita sono una questione di stilePaolo Fresu

Miles, alla fine, ha cercato sempre il suono. Da trombettista sentivo il Miles degli anni ’80 e comprendevo che, in fondo, il suono della sua tromba era rimasto esattamente uguale a quello degli anni ’50-’60, quindi lui era sempre sé stesso. Le posizioni di Miles erano profondamente legate al suo strumento, alla sua idea di costruzione sonora per una tromba, strumento fisico in cui il mezzo vibrante sono le labbra e quindi coinvolge tutto il corpo.

Miles diceva che la musica e la vita sono una questione di stile e lui lo stile lo ha sempre cercato, con una certa raffinatezza: amava l’Italia perché vi ritrovava la bellezza. Una perenne ricerca del bello che ha trasferito anche nell’ultimo periodo della sua vita. Un uomo dalle mille personalità che si esprimeva con mille ricchezze e la cui silhouette era una delle tante maniere per esprimersi.

Nello spettacolo si ascoltano meno brani rispetto a quelli del doppio cd. In «Shadows» prevale il repertorio davisiano acustico mentre in «Light» dominano brani originali vostri, con una sola eccezione. Perché questa disparità?

Noi non volevamo né essere una cover-band né tantomeno ricostruire la storia discografica di Miles. Siamo partiti dall’idea di un pre-Davis in bianco e nero, più rappresentato nel disco acustico, poi un Miles a colori, quello dagli anni ’80 quando è tornato in auge dopo la malattia. Inevitabile che nella parte acustica i brani siano soprattutto standard, e alcuni contrappuntano la parte in cui io racconto l’inizio della mia carriera (fine anni ’70-inizi anni ’80).

Ci sono un’altra serie di standard (Diane, It Never Entered My Mind) che si suonano di rado e ho voluto metterli dentro. Ci sono poi dei rimandi: ci sono citazioni di So What alla fine di Summertime e in MalaMiles; c’è Bess, You Is My Woman Now tratto da Porgy and Bess.

Non volevamo ricostruire la storia discografica di Miles però i riferimenti ci sono ma non sono palesi, sono in qualche modo stati metabolizzati. Nella parte invece elettrica compaiono solo brani originali, più uno standard che è Time After Time di Cindy Lauper perché lo spettacolo chiude con questo brano. Tutti i pezzi sono stati scritti con diverse mani, ognuno ha tracciato la sua fotografia di Miles. Ad esempio Berlin è stato composto da Federico Malaman e Christian Meyer immaginando un Miles Davis che oggi vive a Berlino.

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