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Paolo Fresu, linguaggi del futuro

Paolo Fresu, linguaggi del futuroPaolo Fresu (foto Roberto Cifarelli)

Intervista/Un docufilm sull’artista sardo Il jazz è senza dubbio un documento sonoro, una vera e propria fonte per la comprensione della contemporaneità e della sua storia. È il linguaggio artistico che per tutto il […]

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 30 agosto 2014

Il jazz è senza dubbio un documento sonoro, una vera e propria fonte per la comprensione della contemporaneità e della sua storia. È il linguaggio artistico che per tutto il Novecento ha custodito e tramandato lasciando intatti – pur attraverso innumerevoli trasformazioni – i contenuti antichi e profondi dei ritmi afroamericani e non solo; eppure è la musica che ancora oggi è in grado di evocare il «futuro»: una impalpabile, quasi incomprensibile, modernità. Con la sua tromba e il suo jazz, frutto di profondi suoni e altrettanto incisivi silenzi, ma anche con le tante iniziative di cui è protagonista – a cominciare da un docufilm che narra la sua personale vicenda artistica, per continuare con la celebre rassegna Time in Jazz – Paolo Fresu sembra stigmatizzare questo legame a doppio filo tra il passato e il futuro, le radici e le ali della musica jazz e del suo messaggio. E di riportarci al presente, fornendoci qualche prezioso elemento di comprensione in più.

Il recentissimo docufilm «365. Paolo Fresu, il tempo di un viaggio» del regista Roberto Minini Merot, produzione, che sta girando le principali arene estive ed è disponibile online, ci racconta delle tue radici e della Sardegna come palcoscenico di una prestigiosa e avveniristica scena internazionale. Il recupero dei legami con la terra si coniuga con una proiezione del jazz che diventa musica protagonista del Novecento?

Questo film racconta l’esperienza di un musicista che nasce in Sardegna, in un luogo dove il jazz non esisteva, da un papà che faceva il pastore e non aveva nessun rapporto con il jazz né tantomeno con le grandi metropoli americane. Scopro il jazz alla fine anni Settanta in un piccolo paese – Berchidda – che era un’isola nell’isola, con una civiltà corale e agropastorale. Quando negli anni Ottanta ho iniziato a sperimentare con la musica sarda avevo molte remore: pensavo che una tradizione arcaica, primitiva, ma anche molto fragile come quella sarda potesse essere sconvolta dal linguaggio prepotente della musica afroamericana. Poi, invece, ho scoperto che c’erano tante relazioni tra questi due mondi apparentemente lontanissimi e che questo travaso di conoscenza, di scambio, di comunione portava a una musica nuova. Il jazz italiano penso sia un linguaggio che prende spunto da mille mondi e linguaggi diversi che creano un nuovo colore, come un pittore che usa un verde, un rosso e un blu, e mettendoli assieme con arte riesce a creare un colore completamente diverso che non è uno di questi tre, ma ne è la rappresentazione. È poi un film che racconta cos’è il jazz in Italia, in un momento in cui è profondamente cambiato. I musicisti italiani oggi non copiano più meramente la musica afroamericana degli Stati Uniti del sud. Il jazz italiano si sporca le mani con la musica mediterranea, con l’opera italiana, con la musica partenopea, con le canzoni di Sanremo, con la musica della Mitteleuropa, con la musica africana. Il jazz italiano fotografa l’Italia di oggi. Se il jazz era passato da una dimensione popolare – quella degli inizi del secolo scorso – a musica elitaria, oggi riacquista la dimensione popolare delle sue origini. Per questi motivi credo che il jazz italiano sia oggi uno dei più interessanti in Europa, e derivi da una ricchezza storica di un paese che ha una straordinaria diversità. La ricchezza del jazz, se supportata, sarà la pietra su cui posare un palazzo grande della nostra contemporaneità e del futuro.

I media di Stato negli anni del regime fascista, ma anche la Rai democristiana del secondo dopoguerra, hanno estirpato dialetti e culture locali nel bisogno di creare una nazione. Sembrerebbe che sia stata proprio la musica jazz a riconsegnare la profondità di tradizioni locali in una chiave moderna…

Penso che il jazz italiano sia la rappresentazione di un mondo contemporaneo e ancestrale, di un passato e di un presente che il jazz riesce a metabolizzare e riportare attraverso un suono che è la radice di tutto. Il pensiero sonoro è la metafora di un mondo fatto di relazioni che vanno molto oltre la parola stessa. Esiste una relazione diretta tra melodia e geografia: il jazz è riuscito a dimostrare quanto sia capace di radicarsi nel territorio in cui si trova che sia l’Italia o la Francia, che sia l’Europa o l’America del sud o l’Asia. Il ruolo degli italiani poi nella nascita di questo linguaggio è stato fondamentale. Ne ho avuto la conferma quando ho visto due anni fa a New York, all’Istituto italiano di cultura, il docufilm di Renzo Arbore (Da Palermo a New Orleans… e fu subito jazz, ndr) che raccontava la storia di Nick La Rocca e dell’incisione del primo disco jazz. Il fatto che oggi in Italia si faccia un jazz che è ricco, dinamico, creativo deriva dal fatto che il nostro paese è un paese ricco di usanze, di lingue, di gastronomia. Se in politica e se in economia questa grande divisione è vista come un handicap, in arte è una ricchezza straordinaria: l’arte è in grado di fotografare le diversità e di farle proprie riuscendo a raccontare con un suono, con un gesto, con una linea un paese più di quanto possa fare chiunque altro.

La tua vita artistica ha origini lontane, sin da bambino, con l’esperienza nella banda locale di Berchidda. Quanto jazz era già presente nella ritualità bandistica di allora?

Le relazioni esistono, innanzi tutto le marching band di New Orleans del secolo scorso. Ovviamente la banda di Berchidda non aveva lo swing che avevano le marching band di quegli anni, però la dinamica musicale e il rapporto musica e società è esattamente lo stesso: attraverso il suono della banda la società si riconosce e celebra se stessa nei momenti importanti, in occasione di un avvenimento, di un funerale, di un matrimonio. La banda accoglie i giovani, i bambini che vi entrano e che si relazionano con gli adulti, e si offre come luogo dal quale vedere il resto del mondo da un’altra prospettiva. La banda è la metafora del fatto che tutti possono suonare la stessa partitura ma ognuno la interpreterà in modo diverso. Se tanti giovani rendono prestigioso il jazz italiano suonando strumenti a fiato come tromba, trombone, sassofono è grazie alla tradizione delle bande musicali. La banda è una scuola molto importante proprio di crescita e di scoperta. Personalmente sono cresciuto nella banda non solo musicalmente, ma umanamente.

Quand’è che per Paolo Fresu è avvenuto il passaggio da suoni e silenzi della campagna, a rumori e ritmi metropolitani?

Non lo so. So che quando ho ascoltato Miles Davis ho scoperto questa bellissima filosofia, questa relazione tra suono e silenzio, questo peso dei vuoti, che mi ha molto colpito. Io sono nato in Sardegna dove ho vissuto tutta la mia infanzia, lì i suoni che percepivo erano i suoni del vento, della natura, degli animali che mio padre pascolava in campagna, non certo quelli della Fifth Avenue di New York. Forse, dunque, quando ho potuto scegliere la mia idea di jazz sono andato più verso quella di Miles Davis. Tuttavia, io credo che ognuno trovi la propria dimensione di silenzio, nel senso che la dimensione del rapporto tra suono e silenzio non è necessariamente quello che sentiamo, quello che vediamo: anche nel grande chiasso si trova il momento del silenzio, anzi forse lo si trova ancora di più in alcuni casi. Il suono dell’anima, che poi si rapporta con l’esterno ha origine dentro se stessi. Probabilmente il jazz è bello proprio perché ha questa grande capacità di riuscire a raccontare esattamente quello che siamo, perché siamo improvvisatori ancor prima che esecutori. E non è facile, ovviamente, ma è una sfida; ogni giorno la sfida è quella di provare a raccontare esattamente quello che stiamo vivendo e quello che stiamo pensando.

Anche quest’agosto si è svolto a Berchidda il Festival da te creato «Time in Jazz» e come ogni anno la rassegna ha riscosso un grande successo, questa volta proponendo come tema un filo conduttore tanto suggestivo quanto ancestrale e avveniristico allo stesso tempo: «I piedi». Quanto questa iniziativa e questo tema si legano all’attività del centro Laber, palestra importante di formazione per giovani musicisti?

Il mio ruolo di «stimolatore culturale», oltre che di musicista, nasce dall’esigenza di vivere la musica da un altro punto di vista e di cercare attraverso l’organizzazione di un festival in genere a tema, attraverso un seminario, attraverso una serie di esperienze che non sono lo stare sul palcoscenico ma il portare sul palcoscenico gli altri, di capire cosa si può inventare di nuovo all’interno di questo jazz, che è una parola corta corta ma che oggi è troppo breve per raccontare tutto quello che vi è all’interno. Organizzare un festival è come creare una nuova sinfonia composta da tanti piccoli pezzi: musicisti, seminari, progetti specifici. Tutti strumenti, con l’etichetta discografica Tuk Music che gestisco da cinque anni e si occupa soprattutto di progetti dei giovani musicisti, che rendono la musica una realtà più vasta e contribuiscono a crescere. Ciò che impari in questa crescita lo porti in seno alla musica che fai, al tuo suono, alla tua idea. La musica diventa così il volano intorno al quale si muovono tanti elementi diversi, senza i quali quel volano gira da solo e poi a un certo punto si ferma perché non ha più l’energia per continuare a girare. Nel programma che ho scritto quest’anno per Time in Jazz cito una frase di Frida Kahlo: «Perché volere i piedi se ho ali per volare?». I piedi sono attaccamento alle cose ma allo stesso tempo forniscono la capacità di muoversi pian piano, tastando quello che sta intorno per non cadere. È un tema affascinante: significa danza, rapporto con la terra, rapporto con l’Oriente; significa slancio e concretezza.

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