In un tempo in cui il megafono sovrasta il dialogo ascoltare Patrizio Fariselli è un raro piacere. Il suo argomentare è tellurico e incessante. Le risposte si srotolano in una narrazione serrata su come si può essere musicisti e allo stesso tempo politici; di come si possano scardinare le coscienze attraverso la consapevolezza dei propri gesti. «Non sempre la parola attaccata ad un giro di do può arrogarsi il diritto di essere politica. Ma ci sono anche i luoghi e la funzione di essi. Bach suonato in una fabbrica, a sua insaputa, si colora di rosso». «Con gli Area non ci invitavano molto fuori. Parigi, Lisbona, nell’allora Jugoslavia, solo l’anno scorso a New York con Mauro Pagani abbiamo suonato in un circolo marxista».

. C’erano concept-album e dischi a progetto e c’erano, anche in Italia, intere collane che costituivano in parallelo all’editoria veri e propri generi. La Cramps, geniale etichetta discografica letteralmente inventata da Gianni Sassi (il cui catalogo è stato nei giorni rilevato dal gruppo Sony) era tra queste. Con la punta acuminata rivolta a pungolare gli assetti discografici più smaliziati e commerciali portava avanti un discorso composto da politica e improvvisazione creativa che sfociava sempre più spesso con l’andar avanti del tempo, e si era negli anni settanta, con la radicalità musicale e di posizione. A scoprir le carte furono le trasformazioni in seno agli Area, il gruppo che in certo qual modo rappresentava la stessa etichetta.[do action=”citazione”]Ecco, c’era un tempo in cui fare musica voleva dire porsi interrogativi ai quali il più delle volte non si avevano risposte pronte o perlomeno si avevano risposte che avevano l’aria di essere altre domande[/do]

Infatti, il quintetto di straordinari musicisti al servizio di una libertà d’espressione musicale mai sperimentata prima in Italia, fedeli e controcorrente ad un dettato obbligato di comportamento cominciarono ad accogliere al proprio interno, diventando di fatto un gruppo aperto. In questo brulicare di idee, Sassi ideò la collana DIVerso. Qui debuttarono sia Demetrio Stratos sia Paolo Tofani e soprattutto Patrizio Fariselli, «sistematore» di quasi tutte le musiche degli Area, con Antropofagia; e dentro vi erano il piano preparato di John Cage e il biascicare follemente misticheggiante dell’Artaud di Pour en finir avec le jugement de dieu, ma anche serialità e improvvisazione, Donatoni e Lennie Tristano, rigore e libertà. Fu, dunque a dispetto di tutto, un album che fece il giro del mondo in maniera quasi clandestina (anche se l’originale è caricato su youtube).

Le 500 copie uscite si dispersero in ogni dove e l’aver recuperato dai nastri originali il disco oggi consegna all’ascolto non solo un’epoca ma anche un capolavoro allora non pienamente compreso. Qui il merito è di Carlo Boccadoro, che promuovendo la riedizione all’interno della rassegna Musica Impura di Sentieri Selvaggi al Teatro dell’Elfo di Milano, ha consentito in una serata di giugno, in una rara quanto intensa dimostrazione, allo stesso Fariselli di porsi faccia a faccia con un’idea di multimedialità radicale e aiutato da amici e familiari, di condurre un gioco di rimandi speciale e inclusivo tra la sua musica di ieri e l’attuale. «L’idea del disco nacque all’interno della Cramps».

In un anno cruciale come il 1977. «Sì, un periodo creativo. Gianni Sassi aveva dato vita a due collane: DIVerso e Nova musicha». Così Fariselli comincia il suo ricordo di allora: «Sassi con la prima intendeva esplorare la progettualità compositiva e le infinite possibilità degli strumenti mentre pensava la seconda in funzione più documentale e approfondita verso la scena compositiva più radicale e d’avanguardia». A mediare e collegare le due collane era la figura di Cage? «Cage è stato importantissimo per la Cramps, per Sassi e per Demetrio: la sua interpretazione di Sixty-two mesostics Re Merce Cunningham lo impressionò a tal punto che divennero amici e collaborarono in più occasioni. Io mi limitai a fargli da guardia del corpo con Demetrio nel concerto che tenne al Teatro Lirico poi divenuto celebre».

Già, altri tempi. «Gli Area stavano cambiando e io avvertivo il bisogno di tornare a fare i conti con un vecchio amico: il pianoforte. In Antropofagia era proprio questo strumento tornare al centro di un progetto in cui si concretizzavano per ogni singolo brano tutte le idee che avevo in testa». «Venivano a delinearsi brani in cui giocavo con la libertà d’espressione». Satie? «I quaderni di un mammifero sono una delle mie letture. Le note a margini sono un dettato di suggerimenti imprescindibili come la conferenza dedicata ai bambini anticipa alcune idee di Cage». «Dico mi piace suonare il pianoforte da solo, è un discorso intimo e strutturato perché mi trovo davanti ad una tavolozza sonora pronta all’uso e sorprendente».

E come fu preso Antropofagia dagli Area? «Distrattamente e con complicità, una specie di ti misuro, sto ad ascoltare. Vivevo a Milano con Demetrio e Tofani e anche loro avevano registrato album solisti. Mentre Ares era a Ferrara e Giulio a Cesenatico. Tutti e due erano molto più influenzati dal jazz e in quel periodo suonarono con mia sana invidia in un disco in trio, oggi introvabile, con Martial Solal».