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Paolo D’Angelo, capire cosa ci rende tristi comporta l’essere tristi? Tra il senso e i neuroni

Paolo D’Angelo, capire cosa ci rende tristi comporta l’essere tristi? Tra il senso e i neuroniSerena Vestrucci da «Ritagli di tempo»

Intervalli filosofici Un saggio di Paolo D’Angelo indaga «La tirannia delle emozioni», Il Mulino

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 29 novembre 2020

Da tempo il lessico dell’emotività ha sommerso i discorsi sull’esperienza estetica. «Immersività» è il concetto-chiave: le mostre sono «percorsi sensoriali» immersivi; i film sono emozionanti immersioni negli affari dei personaggi; i romanzi sono «potenti» o «commoventi» testi in cui immergersi. La tirannia delle emozioni di Paolo D’Angelo (Il Mulino, pp. 240, € 22,00) limita al campo estetico la propria indagine sull’«emotivismo», sebbene collochi questo sintomo sociale – questo qualcosa che parla per qualcos’altro, questo espediente retorico di silenzi collettivi – in una dimensione più ampia, che interessa anche i dibattiti politici, etici, morali. Perché, si chiede D’Angelo, negli spettatori «l’emulazione si sostituisce alla catarsi»?

Che l’arte susciti emozioni non è in discussione. Le ragioni dell’emotional turn, fatto coincidere con l’uscita del Potere delle immagini di Freedberg, sono la risposta al formalismo egemone in particolare nella critica degli anni Sessanta e Settanta, che aveva trascurato l’emozione. Ma a D’angelo interessa discutere il tipo di emozioni che si provano di fronte all’arte e i motivi che le rendono così diverse rispetto a quelle ordinarie.

Tra i suoi obiettivi polemici, le concezioni neuroscientifiche della ricezione dell’arte, che ambiscono a dimostrare come la finzione si fondi su basi sensorio-motorie, grazie ai neuroni-specchio, la cui azione tuttavia non qualifica l’esperienza estetica. Altro bersaglio della critica, la riflessione estetica di alcuni filosofi analitici dalla metà del XX secolo, ai quali D’Angelo non risparmia l’ironia. Infaticabili coniatori di paradossi (Paradox of Fiction, Paradox of Tragedy, Paradox of painful Arts, Paradox of Onstage Emotions), gli emotivisti analitici fondano le loro argomentazioni sulla fallacia intrinseca al non distinguere tra emozioni della vita reale e emozioni finzionali.

Nelson Goodmann è tra i pochi, via Aristotele, a non ritenere l’arte e la finzione strumenti per emozionare, bensì per comprendere. Anche per D’Angelo, nelle opere d’arte le emozioni «funzionano cognitivamente, cioè ci fanno capire che cosa vuol dire essere tristi, non ci rendono tristi». Smarrire questo discrimine implica una «confusione che non sa più mantenere ferma la separazione tra la realtà e la finzione», e chi ne è vittima «finirà inesorabilmente per comportarsi nella realtà come se avesse a che fare con una finzione».

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